domenica 7 ottobre 2018

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Forse ritornare, di nuovo, alla progettazione, non sarebbe poi tanto male. Questo è un periodo di riflessioni sia dentro me che fuori-da-me. Mi sto recentemente scontrando con tutta una filosofia dell'oggi che non immaginavo esistesse. La discussione di ieri sera è terminata con "se automatizzi e le persone non hanno niente da fare, passeranno tutto il loro tempo a farsi seghe mentali". Che è un po' quello che sta succedendo a me. Togliendo però l'angoscia per il mondo (inteso come sistema terra, sia materialmente che socialmente) rimane in me una certa positività, una sensazione di sottile epifania quasi. Questo per dire che alla fine è un bel periodo, tutto sommato non mi lamento. Una questione da sollevare potrebbe essere la ricerca di un lavoro, la gratificazione del percorso didattico, l'attivo mettersi in gioco ma anche questi aspetti verranno impegnati gradualmente spero, già qualcosa si riesce ad intravedere. 
Detto questo la questione diventa molto più ristretta fortunatamente: come convogliare quanto detto sulle nuove aperture filosofiche in qualcosa che possiamo effettivamente tangere, come la musica, la cultura, l'arte? Parafrasando: come sto affrontando musicalmente questi "quasi-piacevoli" turbamenti interiori? 

Capitolo 1 - L'improvvisazione e l'idea di libertà

Buttiamoci subito a capofitto in quello che credo sia l'argomento più pregnante e fondante della discussione. Recentemente, assieme ad un caro amico molto più formato di me su questi temi (ma anche sul tema della musica elettronica in generale) ho sperimentato una cosa che mai avrei creduto possibile: l'improvvisazione radicale. Quando penso a improvvisazione radicale penso subito al free jazz. Mi spiego: nella mia testa solo il jazzista conservatorato è in grado di raggiungere una padronanza tale dello strumento da permettergli la libertà di rompere i muri delle regole musicali. Per gli altri la questione diventa difficile e i tentativi si riducono a cacofonia e stereotipie dei suddetti jazzisti. Questa è una visione reale fino ad un certo punto. Il fulcro è "padronanza dello strumento". Se il tuo strumento è il sax, chiaro, devi padroneggiarne le regole e i meccanismi. Se il tuo strumento è una macchina elettronica incontrollabile la questione si fa più facile: le regole che il free suppone di rompere tu, suonatore di strumenti elettronici del demonio, non sai neanche cosa siano. I muri da scavalcare sono solo delle linee per terra. Questo però espone a dei problemi enormi nel momento in cui una sessione di improvvisazione si trova a fare i conti con il concetto di melodia, armonia etc... Queste sono regole che il suonatore di strumenti elettronici del demonio non potrà mai rompere perché non riguardano il suo strumento. La benedizione diventa all'improvviso qualcosa di negativo: l'idea di libertà nasce (anche) dal superamento delle regole, se non ci sono regole, viene meno l'idea di libertà (più o meno). Questa è una dicotomia fondamentale: da un lato hai la formazione che, molto consapevole delle regole, riesce ad abbattere gli stessi muri che si è creata; dall'altra hai persone che non hanno alcuna formazione, alcun muro e che semplicemente improvvisano. Dov'è il giusto? Partiamo da me, per fare un esempio tangibile. Io non ho alcuna formazione musicale, al massimo so un po' di ritmo ma neanche quello. Ho però una certa padronanza sugli strumenti che utilizzo nel senso che li conosco, sono una parte di me. Facendo un passo avanti nella discussione posso sicuramente affermare che il tentativo di improvvisazione che accennavo prima è andato bene, è andato molto bene (ma di questo parleremo dopo). Quindi perché, nonostante io non abbia assolutamente una formazione tecnico-didattica in musica, la performance è comunque riuscita? Il segreto per me sta nelle proporzioni: gli ingredienti sono quelli detti prima, studio, che ti permette l'utilizzo di tutta una serie di avanzate tecniche musicali ma a cui si lega intrinsecamente la difficoltà di superarle, e spirito naive a cui però si lega una certa sterilità di performance che per essere efficace dovrà attingere ad altre capacità proprie dell'individuo indipendentemente dalla formazione musicale e dalla tecnica. Se le proporzioni sono mantenute in maniera equilibrata allora la performance avrà una buona base per poter procedere. Dico buona base perché, purtroppo o per fortuna, questo equilibrio non è assolutamente tutto il necessario. C'è bisogno di un'attitudine filosofica, un modo di porsi nei confronti del limite. C'è bisogno di empatia
L'empatia è il fondamentale discrimine fra jam e improvvisazione radicale. La jam ha delle regole (melodiche, ritmiche, strutturali del brano) che, venendo poste a priori, permettono ai partecipanti di avere dei punti di riferimento a cui aggrapparsi per non perdere il filo della narrazione. Perdere il filo della narrazione è quello che DEVE succedere in un'improvvisazione radicale. Come fare ad orientarsi nel mare infinito delle possibilità? Ci sono vari modi: il più facile è sicuramente quello di confondere una regola con un'intuizione, rientrando in schemi melodici o ritmici senza rendersene conto. Questo è un errore strutturale e quando appare in una performance lo si nota. L'altra possibilità per "orientarsi" (posto che orientarsi non è assolutamente il termine corretto) è l'empatia, buttarsi dentro gli altri. 

Capitolo 2 - L'empatia e l'idea di libertà

Il concetto di empatia è qualcosa di talmente vago e sfaccettato che tentare di inquadrarlo qui mi sembra davvero un po' troppo. Voglio però citare, giusto per avere delle coordinate, la mia idea di empatia, cosa significhi per me essere empatici. Empatia è il salto dentro l'altro. Mutuo in realtà questa definizione dalla base concettuale-filosofiche di una della mie branche psichiatriche preferite, la psicopatologia descrittiva. La descrizione minuziosa di un disturbo richiedere capacità di osservazione e immedesimazione, ovvero empatia. Senza il salto dentro l'altra persona, la descrizione di qualcosa diviene decisamente sterile, didattica, accademica quasi. Solo la personificazione dell'altro dentro me, riesce a superare questo ostacolo. Cosa c'entra l'empatia con l'improvvisazione e con l'idea di libertà? C'entra in maniera imbarazzante perché è l'unica cosa che mi permette di navigare il Maelstrom delle possibilità. Per prima cosa bisogna buttarsi nel gorgo (nero che non mostro, altrimenti mi chiameresti mostro) assieme ai propri compagni di viaggio. Poi bisogna darsi la mano, non, come è effettivamente lecito pensare, per evitare di essere risucchiati ma, al contrario, per essere risucchiati assieme. La solitudine del gorgo è quanto più lontano dall'improvvisazione ci possa essere. Trasportando questa immagine figurata nella realtà, il controllo del risucchio nel gorgo è quello che fa la differenza fra una bella performance e una non particolarmente riuscita. 
E la libertà? Come si legano i concetti di libertà ed empatia? Molto semplicemente in realtà. L'epifania della libertà ovviamente accade nel momento in cui si abbattono i muri ma, personalmente, non è sufficiente. Serve il salto nell'ignoto e, per me, ignoto è l'altro. Non mi era mai capitato di saltare in un'altra persona con così tanta abnegazione, senza limitazioni o pregiudizi. Un bel litigio o un'accesa discussione (non violenta fisicamente ovviamente) sono dei surrogati che si avvicinano a quello che sto dicendo. Lo sforzo attivo per comprendere gli altri e le loro posizioni è certamente un'attività dell'empatia. Anche l'improvvisazione è dialogo ma è un dialogo senza parole, molto più profondo. La differenza potrebbe risiedere nel risultato finale: in una discussione la tua assenza di empatia porta semplicemente ad un arroccarsi sulle proprie posizioni che, alla fine, risultano al massimo rafforzate. Può accompagnarsi all'incazzatura per aver discusso animatamente, si può urlare, ci si può addirittura allontanare dall'avversario (che tale è, un avversario). L'improvvisazione non è una lotta, non devi vincere. Devi raggiungere un obiettivo assieme, devi navigare il gorgo oscuro, il Maelstrom, dando la mano ai tuo compagni di viaggio, fondendoti con loro. Se la solitudine nell'improvvisazione è un male, il combattimento fra fratelli è un anatema, un fallimento. Attenzione però, è possibile (e nella bibliografia sull'argomento gli esempi sono innumerevoli) che ci sia uno scontro, magari per motivi personali trasmigrati all'interno della performance, fra i componenti. Anche qui la differenza sta nel modo con cui questo viene risolto e condotto. Personalmente però, non riuscirei mai ad improvvisare con una persona che odio o con la quale ho dei conti in sospeso nel mondo reale
Se il salto nell'ignoto dell'altro rappresenta indubbiamente un esempio di empatia, il passo successivo per arrivare al concetto di libertà è la condivisione del momento di fusione empatica con gli altri. La libertà è dono per quanto mi riguarda. La libertà è sinonimo di comunità. Ritorniamo un attimo all'esempio reale che riguarda me: assieme al caro compagno di viaggio abbiamo provato un paio di volte prima di lanciarci in questo festino free-impro. Il risultato è stato quanto detto fino ad ora, nel senso che le prove, noi due soli, sono state impregnate di questa empatia, di questo salto nell'altro ed entrambi ce ne siamo perfettamente accorti. Posso dire questo perché il risultato finale, magari non eccelso secondo i crismi e canoni dei puristi, appaga certamente noi come persone. Il gradino successivo è stato il festino, una situazione più o meno pubblica in cui abbiamo proposto questo format di improvvisazione ad alcuni amici e conoscenti. La magia è scattata qua: quando pratichi questo rituale di fusione delle coscienze che è l'improvvisazione, hai, secondo me, bisogno di orecchie terze per poter scaricare l'energia prodotta, solo così raggiungi quella libertà tanto agognata. Il tuo io, super carico di tensione proveniente da ciò che stai facendo con un'altra persona, si stempera negli spettatori. Se questo flusso di energia (primo) esiste e (secondo) è bidirezionale, allora il rituale è completo. 
Ho maturato questi concetti leggendo qualcosina ina ina sull'argomento ma sopratutto rivedendo il retrospettiva quanto vissuto nella mia esperienza di spettatore. Molte volte mi sono trovato in situazioni di free sterili, in cui questa comunicazione non esisteva. Altre volte invece il passaggio è stato tanto intenso da travolgermi, anche se non avevo modo di descriverlo a parole, come sto facendo ora. Il fatto che il modello che ho (non proprio autonomamente) pensato mi permetta di spiegare le esperienze vissute fino ad ora, mi rincuora sulla bontà del modello stesso. 

Capitolo 3 - L'improvvisazione e la tecnica. Da un'esperienza personale alla critica del modello vigente.

Volevo ora entrare su una questione tecnica che mi sta particolarmente a cuore. Durante queste prove/concerto il mio strumento era un sintetizzatore modulare. Ora. Nel corso di questa avventura musicale che mi sono trovato a vivere ho maturato la convinzione che, come fa notare una Caterina Barbieri (artista che non mi piace tantissimo ma che stimo come persona e "pensatrice") le persone che fanno parte di questo mondo e che circondano questi artisti modulari tendono a identificare il meccanismo di produzione con il prodotto, tartassando lei e i suoi pari di domande tecniche su quali e quanti moduli conoscano o utilizzino spogliando completamente il brano o la performance del suo valore. Cospargendomi di cenere ammetto di aver approcciato anche io il mondo modulare in questo modo, carico di stereotipi, di forum e di video su youtube alla ricerca del modulo definitivo da 50000 soldi da sognare ma non potermi permettere. Le cose sono cambiate con questa esperienza di improvvisazione. Keith Rowe, un tipo che mi trovo ad amare approcciando il mondo del free, disse che per rompere completamente le regole l'unico modo era utilizzare il suo strumento (una chitarra) come se fosse un'altra cosa. La soluzione, per lui, fu girare la chitarra orizzontalmente e utilizzarla come tutt'altro strumento. Quello che venne fuori e una buona chiave di lettura del movimento di libertà musicale che copre il dopoguerra e arriva fino ad ora. I moduli sono, per fortuna, ancora molto meno stereotipati di una chitarra nel senso che la vastità della galassia modulare permette degli approcci tutto sommato infiniti. Il problema è che, anche in questa galassia, le categorie cominciano ad emergere, creando dei microcosmi fatti di club music e di ambient/drone. Come si può notare dai post precedenti io sono un grande amante del drone ma non mi permetterei mai di confinare il mio strumento a delle regole che la comunità ha arbitrariamente scelto per me. Sarebbe illogico e irrispettoso. Questo lo dico (cospargendomi il capo di cenere) alla luce di quanto vissuto nell'ultimo periodo: fino a poco tempo fa pensavo esattamente le cose che pensa la comunità, fare droni o cassa più o meno dritta. 
La cosa realmente affascinante però è che questo territorio che unisce synth modulari a improvvisazione radicale è inesplorato. Lo è anche il punto di unione fra realtà è synth, esplorabile attraverso i sensori e i controller. Ho battuto molte volte il concetto che in questo campo esista una fisiologica relazione biunivoca fra macchina e uomo, ma non mi ero accorto che per tantissimo tempo la macchina stava schiacciando, naturalmente e inconsapevolmente, la mia creatività. Ho passato moltissimo tempo fissando il mio synth fare un po' quello che gli pareva, nonostante fosse in parte su mia indicazione. (Ri)appropriarsi del ruolo "alla pari" dell'operatore in questa equazione è ora una vera rivoluzione, un conquistare un territorio vergine e pieno di infinite possibilità. A questo proposito mi ha fatto molto riflettere una discussione nata su una community su synth e altre amenità. Il personaggio in questione argomentava, con un certo nichilismo, che la macchina ha un inizio e una fine, per quanto vasto sia il territorio. Le possibilità melodiche sono finite e, secondo lui, lo sarebbero anche quelle sonore, timbriche per usare un termine che diocane mi fa proprio vomitare. Sulla prima opinione mi trova assolutamente d'accordo, non sono un grande amante della melodia. Sul secondo assunto meno ma la verità è che ha un po' ragione. E quindi? La soluzione è facile: riappropriasi del ruolo che spetta all'operatore nella relazione uomo-macchina e fare improvvisazione. Non da soli ma con gli altri e in mezzo agli altri. Non ci saranno mai due performance uguali e le possibilità si apriranno, infinite, davanti a noi.
Sottolineo ancora una volta con gli altri e in mezzo agli altri. Pensare che la propria cameretta sia appagante e l'inizio-e-fine-di-ogni-esperienza può essere anche facile e bello ma è una trappola del cazzo che sta riducendo gli individui a salme dentro i loculi. 

RIAPPROPRIAMOCI DELLO SPAZIO COMUNE, USCIAMO DAL LOCULO, FACCIAMO IMPROVVISAZIONE 

Ci salutiamo direi, perché il tempo necessario a leggere tutta questa merda è abbastanza elevato. In ogni caso vi lascio alcune letture e alcuni ascolti. Il primo disco, in alto appena iniziato il post è del gruppo AMM, sigla storia dell'improvvisazione britannica. Non me la sento di consigliarvi nulla che riguardi il free jazz tradizionale (Coleman free jazz per esempio, è un disco che mi sa di jazz, non di free). Da AMM potreste passare a MEV, Musica Elettronica Viva, gruppo di improvvisazione radicale, elettronica, free, nato e cresciuto nella Roma degli anni 70. Da AMM il passo è brevissimo per conoscere Keith Rowe, personaggio sicuramente seminale che ha prodotto nel tempo una caterva infinita di dischi e altre storie. Non vi consiglio un disco suo ma l'opera definitiva su quanto ha fatto e su quanti gli sono ruotati intorno nel corso del tempo. 


Altro personaggio che ho imparato ad amare e che sto continuando a studiare, fra riferimenti, storia e leggenda, è sicuramente David Toop. Autore del libro che mi ha permesso di fare i ragionamenti di cui sopra, è stato e continua ad essere un personaggio fondamentale nella scena improvvisata Inglese, alla pari con il caro Rowe. Vi consiglio il libro che segue, dal quale poi potrete addentrarvi nella giungla della musica libera con una sorta di cartina in mano. Purtroppo si ferma prevalentemente agli anni 70 (dal secondo dopoguerra) ma ci sono anche dei riferimenti recenti. Poi la bibliografia e la discografia sono molto corpose.  


E basta dai è abbastanza materiale. Poi la verità è che scoprire da soli le cose, vivere delle piccole e solitarie epifanie, è molto gratificante. Il discorso non è ovviamente chiuso, questo post ha richiesto molte energie per essere pensato e scritto, manca tutta la parte personale dei concerti fatti e aggiornamenti tangibili anzi, ascoltabili, su quanto prodotto. Tempo al tempo, un passetto alla volta.

ah si. QUESTO

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