venerdì 18 dicembre 2020

Ecologia Anonima



Sarebbe stato molto carino trovare la bozza di un post già imbastito, una cosa che mi è successa spesso a dire il vero. Potrei anche chiudere qui questa stesura, lasciare tutto fermo e virtualmente consegnarlo al me del futuro che leggerà queste righe e penserà: "bravo, ottima idea!". Ma la verità è che il me del futuro sono io, le cose accadono completamente e contemporaneamente, non c'è consequenzialità, o almeno non in questi ambiti di scelte e conseguenze (retroattive). 
Mi soffermo un secondo sulla nuova interfaccia di blogger e dico: va bene, approvo. 
Mi soffermo un secondo anche sulla scelta musicale che accompagna la stesura di questo post: i Motorpsycho. Anche in questo caso approvo. 

Poco fa (qualche ora) ho affrontato la questione estetica delle mie produzioni artistiche da un punto di vista insolito (ma non nuovo): e se fosse una forzatura tutto questo cercare l'alterità, la sorpresa, l'alieno e l'inusuale? Ma poi inusuale per chi? Per cosa? Per quali criteri? Ad ogni modo un fondo di verità esiste, non nego di aver a volte pensato, di fronte ad una linea melodica per esempio: "ma perché non può piacermi? Ma perché devo continuare ad arrovellarmi cercando soluzioni contorte quando la verità estetica si sta manifestando davanti a me spontaneamente, senza neanche doverci riflettere troppo?"
Possiamo chiudere il discorso rapidamente aperto tirando in ballo la soggettività e i suoi inspiegabili cambiamenti. Scavando però arriviamo al mio amato gorgo nero che non mostro. Mi piace la teoria che la creatività e la creazione siano un atto di complicità, o per meglio dire di compromesso, con qualcosa totalmente estraneo all'umano. Qualcosa che, stando fuori, nel vuoto, non nel pieno del materiale, della pagina, dell'onda sonora ecc..., allaccia una strana relazione con noi. Questo qua sopra è puro pensiero Negarastaniano. Negarestani è un filosofo iraniano non proprio di facile lettura che ha, fra le varie cose, teorizzato (non per primo) il rapporto che esiste fra autore e creazione. Quella che a prima vista può sembrare una dinamica piuttosto banale, si rivela in realtà un qualcosa di quasi "contorto e perverso": il materiale che uso per la mia creazione, sia esso suono, pietra, parole, carta, merda, pensiero ecc... esiste e "desidera" di per sé, al di fuori di me e della mia volontà. Tutto questo viene chiamato "materiale anonimo" che segue delle leggi e dinamiche il più delle volte non conoscibili o comunque sicuramente non fisico/matematiche. Quando giudichiamo qualcosa di "artistico" cerchiamo in vario modo di appellarci a criteri come l'estetica, il valore economico, la simmetria, l'armonia, la proporzione, il contenuto ecc... ma la realtà è che, nel caso per esempio di un'opera giudicata geniale oppure "bella", la contingenza del materiale extraumano ha semplicemente deciso (termine improprio) di sovrapporsi alle volontà del creatore.
Decisione e desiderio sono concetti umani, che non appartengono al materiale con il quale stiamo creando. Il materiale esiste, certo, ma l'unico modo con cui possiamo definirlo è "anonimo" ovvero inconoscibile e "contingente". Mi sono andato a vedere la definizione di contingenza ed è

contingènza s. f. [dal lat. tardo contingentia, nel sign. filos.; il sign. 4 da contingente «tangente, contiguo»]. – 1. a. L’esser contingente, accidentale, non necessario. Filosofia della c. (o contingentismo), indirizzo di pensiero sorto in Francia nel sec. 19° come reazione al positivismo e al materialismo; esso negava il carattere di assoluta necessità delle leggi naturali, affermando conseguentemente la contingenza delle varie forme di realtà. b. Con sign. concr., le cose contingenti: La c., che fuor del quaderno De la vostra matera non si stende (Dante). 

L'essere accidentale, non necessario mi ha spaccato. Secondo Negarestani quello che possiamo fare è accettare questa contingenza, "aprirci" alla contingenza. Ma l'apertura non è vista in senso di "accettazione zen".  Non la quasi passività orientale (inconoscibile per me, inconoscibile per lui, me ne rendo conto). Accettare significa già operare una selezione delle possibilità. Fra me e il materiale si crea un sistema complesso e questo sistema complesso ha una sua "ecologia". Non possiamo prescindere dalle regole quasi termondinamiche che inevitabilmente regoleranno questo ecosistema. Per esempio ci sono delle cose che l'ecosistema tollererà in quanto fisicamente possibili e altre che non accadranno mai perché troppo dispendiose per il materiale o per me. Quindi è anche possibile che non succeda assolutamente nulla. 

A prescindere da questo però, che è uno scalino successivo, è utile soffermarsi sul concetto di materiale anonimo, o meglio l'attribuzione, da parte del filosofo in un agency, un programma/progetto/volontà al materiale con il quale sto lavorando. Cambia tutta la prospettiva: passiamo da una visione monodirezionale, in cui esiste l'autore ed esiste l'opera, ad una visione sistemica, ecologica in cui esistono rapporti fra due entità distribuiti secondo vettori di contingenza, probabilità, apertura e chiusura. Tornando a prima questo stravolge completamente l'idea di giudizio, di estetica, di piacere ecc... applicabili, nel mio caso, alla musica. Non si tratta più quindi di domandarsi come fare una cosa ma di riflettere sul perché si sviluppino certe dinamiche piuttosto che altre. Non si tratta di acquisire conoscenza per poi riformularla secondo i propri canoni e principi estetici ma di cambiare prospettiva, inserendo l'ecologia del rapporto fra autore e materiale all'interno dell'equazione. Per approfondire quest'ultimo punto, è chiaro che un musicista classico porterà con sé un bagaglio enorme di conoscenza ma questa nuova visione artistica che proponiamo gli permette di inquadrare conoscenza (tecniche e teorie) e materiale (lo strumento, il suono) secondo una prospettiva, come accennato prima, biunivoca e ecologica. Quindi non stiamo rinnegando lo studio ma l'approccio antropocentrico (termine che odio ma che in questo caso è appropriato) alla creazione, come se implicitamente con il termine creazione appunto, stessimo ammettendo che il materiale con cui lavoriamo è inerte, assoggettato completamente al nostro volere, plasmabile nella sua interezza, liscia, accessibile, continua, ottusa. Ovviamente non è così. I materiali con cui lavoriamo sono porosi, grezzi, frastagliati, taglienti, irregolari, asimmetrici, fino a divenire sfigurati, orrendamente cavi e oscuri, ci schiantano con la loro complessità non euclidea e ci impongono una razionalizzazione che, alla fine, chiamiamo volontà

Le procedure di randomizzazione e di chance, squisitamente Cageiane, ma non solo, sono una modalità con la quale la nostra agency viene annullata (parzialmente) e viene favorita quella del materiale. L'anonimato di cui parla Negarestani può essere anche questo e lo stupore (e orrore) che ci pervade nel momento in cui il materiale prende il sopravvento e si manifesta, chiaramente nei limiti ecologici del sistema che abbiamo (noi?) imbastito.
Noi? Il nocciolo è questo in fondo: ammettendo che l'improvvisazione totale o parziale all'interno di un sistema chiuso o semiaperto come quello della performance sia un modo per evocare l'agency del materiale, la costruzione del sistema stesso da chi viene fatta? Da "noi" intesi come agenti di volontà oppure in maniera iperstizionale dal materiale stesso? Se noi conosciamo il potere di questo strano rituale evocativo (e lo conosciamo attraverso l'esperienza), e imbastiamo il contesto affinché gli effetti sperati si manifestino, è la manifestazione stessa a agirci per condurre alla sua stessa realizzazione. In questo arcano meccanismo di feedback parole come volontà o intenzionalità, sono spiegazioni razionali che si infrangono nell'inconoscibile, nell'epifania del momento, nella comunione delle menti che tutti tanto abbiamo cercato e esperito. E se fosse semplicemente la meraviglia derivante dalla possessione, di fatto, dalla manifestazione o evocazione di un qualcosa, di un inconoscibile che non appartiene a noi ma all'anonimo materiale con cui stiamo entrando in contatto, singolarmente oppure in comunità? 
Vista in questi termini tutta l'attività artistica, nei suoi aspetti contingenti, ovvero non strettamente intenzionali (passatemi la semplificazione), acquisisce tutta un'altra sfumatura: la potremmo immaginare come il risultato di forze plurime multidirezionali, ciascuna derivante dall'agency di materiali diversi (materiale è anche il contesto in cui la performance si sviluppa per esempio). Chiaramente non è nemmeno corretto parlare di risultante al singolare: una performance è un evento di una complessità insondabile e di conseguenza insondabili e numericamente molteplici sono le forze in gioco, ciascuna caratterizzata da vettori di azione diversa. 
Ripetendo il concetto di prima, queste forze possono essere più o meno intense e sensibili a seconda dell'utilizzo della premeditazione e della volontà da parte del soggetto (essere umano per intenderci): se mi siedo davanti ad ableton e creo una traccia pezzettino dopo pezzettino la contingenza e casualità di questo processo è molto bassa (ma non nulla). 

Tutto questo a che cosa porta? A niente di speciale mi verrebbe come prima risposta. In realtà, dal mio punto di vista, dovrebbe portare almeno alla considerazione che i materiali con cui agiamo nel nostro operato artistico non esistono poiché subordinati al nostro volere onnipotente ma agiscono in maniera quantomeno parallela (con un'oscillazione fisiologica come visto prima). Stessa cosa vale per il contesto in cui operiamo che dovrebbe essere visto anch'esso come dotato di agency indipendente al nostro controllo o volere. 
Possiamo spingerci ancora più nel dettaglio, usando l'ambito prettamente musicale come esempio: un suono è un fenomeno fisico al quale noi, come esseri senzienti, diamo una serie di caratteristiche, caratteristiche più o meno agenti su di noi come fenomeni percepibili. Mi spiego: la vibrazione fisica che avvertiamo a frequenze molto basse e che fa letteralmente risuonare il nostro corpo nella sua interezza, non è percepita a frequenze più alte. Questo però non significa che non esista. Ci sono quindi dei limiti alla categorizzazione delle qualità di un fenomeno. Possono essere qualità di un fenomeno che noi ignoriamo e che cataloghiamo come inesistenti ma che di fatto sfuggono la nostra capacità di comprensione e che, possedendo comunque una agency, agiscono indisturbate all'interno dell'ecologia della performance. Questo potrebbe essere un altro, ulteriore, modo di lettura anche perché, se agiscono indisturbate, la loro azione potrebbe manifestarsi indirettamente attraverso la variazione di fenomeni da noi percepibili e percepiti. Si configura quindi la struttura di un sistema in cui gli elementi possono relazionarsi in fenomeni di variabilità: l'azione di un elemento varia le caratteristiche di un altro. Senza dimenticare i possibili meccanismi di feedback che si vengono a formare e che complicano in maniera via via più indecifrabile il sistema stesso. 

Potremmo utilizzare un'astrazione a me molto cara per avvicinarci al concetto di sistema agente come dalla definizione di Negarestani. Parlo ovviamente di un qualunque sistema modulare (meglio fisico ma va bene anche software). Un sistema modulare è uno strumento ecologico composto da singoli elementi interfacciati fra loro allo scopo di produrre (sintetizzare) un suono o un insieme di comandi destinati al controllo di altri agenti esterni al sistema (un sistema modulare di controllo, poco frequenti ma possibili). Ci focalizzeremo sulla sintesi del suono. Ogni modulo viene concepito con una o più funzioni i cui contorni possono essere sfumati sia per il volere dell'ideatore, sia per le modalità di interfaccia che il musicista decide di compiere. La funzione standard quindi è relativa e anzi, l'utente finale è incoraggiato alla scoperta di comportamenti aggiuntivi nati dalla complessità dell'iterazione. L'agency dei singoli moduli sfugge al musicista sia per ignoranza tecnica (il linguaggio del modulo non è il linguaggio umano e la velocità di trasmissione di un suono o di un segnale sono inintelligibili) rimanendo sempre nascosta dall'effetto sovrastrutturale che ha sul suono, elemento che il musicista cerca e che è in grado di percepire. Possiamo aumentare la nostra consapevolezza sull'agency dei moduli utilizzando degli strumenti di analisi come un oscilloscopio, ma non riusciremo ma a cogliere l'interezza del singolo elemento e la complessità delle sue relazioni con gli altri, con noi e con il sistema. Per quanto quindi un sistema modulare sia, rispetto al sistema ecologico teorizzato parzialmente prima, qualcosa di bidimensionale (potremmo dire suono/segnale per semplificare), già così è completamente al di fuori dal nostro controllo, facendo emergere l'agency del materiale (i moduli, la comunicazione fra i moduli e il suono). Resta il fatto che anche il sistema modulare è un sistema ecologico e presenta quindi dei limiti di fattibilità: l'agency del suono (stratificata secondo caratteristiche intellegibili o meno, può agire su altri parametri, modificandoli, solo se le condizioni del sistema lo permettono; noi stessi possiamo agire sui moduli e sul suono solo se le condizioni sono favorevoli e così via. 
Anche il concetto di contingenza può essere facilmente speso nell'azione di un sistema modulare: gli eventi accidentali, non necessari, avvengono sovente nella pratica artistica e anzi, possono essere il punto di partenza per percorsi inattesi che retroagiscono poi sulle premesse sviluppandole ancor più, facendo emergere complessi meccanismi di feedback. 
Sistema modulare quindi come esempio perfetto di ecologia, in cui il materiale anonimo emerge nella sua agency, palesando forze sconosciute che, indirettamente, modificano il risultato della performance e la nostra percezione di esso. Lo shift artistico a cui stiamo assistendo, grazie al quale sempre più musicisti cercano di implementare tecniche di sintesi del suono o filosofie dell'improvvisazione, nella loro pratica, anche classica, potrebbe portare ad un emergere massiccio di questa agency anonima determinando, infine chissà, uno shift anche del gusto estetico e dei canoni di ascolto. 

L'unica fonte da citare è sicuramente // Negarestani "Contingency and Complicity" ovverosia qui



venerdì 13 marzo 2020

aLea




Sono chiuso in casa. Sono chiuso in caso. 
Non è questo l'argomento del post fortunatamente. Forse sarà argomento di qualcosa in futuro, dopotutto il tema della quarantena è troppo importante per lasciarselo sfuggire così. Alla fine la maggior parte delle scelte che facciamo si rivelano per ciò che sono, dolorose. Una minima parte sono scelte felici, ma lo sono a priori, prima anche di scegliere, sono scelte felici per definizione. 
Mi trovo comunque a parlare dell'isolamento forzato se non altro perché si sta rivelando portatore di grandi epifanie sonore. Prima di tutto la città è diversa da un paese di "montagna". E voi direte "uau che edgy, che rivelazione". La mia risposta non c'è, nel senso che è ovvio che montagna e città siano diverse da un punto di vista sonoro e musicale. La differenza che percepisco è l'oggetto del mio stupore, non l'ovvietà nella differenza dei contenuti. Non pensavo che l'immersione in un contesto sonoro così diverso potesse avere un'effetto epifanico sul mio modo di percepire le cose. Farò un esempio per cercare di risultare meno chiaro possibile:

- poche ore fa ho deciso che avrei registrato qualcosa con il mio tascam. Un field recording dei suoni d'appartamento e il loro intorno o qualcosa del genere insomma. Sono un grande sostenitore della potenza della registrazione nel catturare l'essenza di un luogo, questo mi pare si capisca leggendo i post passati. Quando registriamo il suono di qualcosa lo possediamo veramente, come un ritratto di Dorian ma forse ancora più potente, come una foto tridimensionale, un'impronta digitale dell'anima. Più o meno dai. La manipolazione e l'utilizzo di quel frammento (più o meno lungo) permette di evocarlo all'interno di altre cose o mischiarne l'essenza con elementi nuovi al fine di creare (creare, far emergere dal nulla) i contenuti voluti (o meno). Sto divagando. Comunque considerando il mio  trasferimento in una casa nuova, registrarne l'aura sonora, direi che è il minimo. E così ho fatto. In quel momento si è verificato qualcosa di inatteso. Registrare "qualcosa" in un ambiente inerte come può essere una stanza silenziosa o un paese di montagna significa focalizzarsi su un singolo evento e depurarlo, coglierlo nella sua essenza senza che questa venga a contatto con il contorno. Non appena ho fatto partire la registrazione, tuttavia, mi sono accorto che l'ambiente non faceva nessun tipo di sforzo nella cesura delle parti ma agiva in un unico malleabile blocco di suono. Blocco di suono del quale facevo parte anche io. Ho capito per la prima volta il mio ruolo di registratore/ascoltatore e non teoricamente, speculandoci sopra e raggiungendo una definizione a priori, ma in modo deduttivo, basandomi sull'esperienza. Ho avuto un'epifania. Ho registrato il tutto compreso me stesso e il registratore in un'opera di metaregistrazione che, ripeto, conoscevo molto bene teoricamente ma mai avevo sperimentato con così tanta nitidezza in prima persona. Certo, le passeggiate sonore di cui abbiamo parlato sono un momento di rivelazione meta MA rappresentano la controparte logica, pianificata del problema. Quanto successo questo pomeriggio è assolutamente involontario e inaspettato. La conseguenza immediata è stata che, essendo attore partecipe del tutto ho improvvisato seguendo la corrente degli eventi: il suono di una macchina è diventato il mio strusciarmi le mani sui pantaloni, il ticchettio dell'orologio gli scrosci articolari, movimenti al piano di sotto suoni gutturali di tensione muscolare. Esiste forse una differenza sonora fra queste entità? Se io imito il suono di una macchina che passa sono io stesso il passare di quella macchina? Il passare di quella macchina appartiene a quella macchina nel momento in cui diventa suono e si spande nell'etere? Boh. 

Il mio tempo di oggi è stato principalmente speso (sono le 19 e 26 del 13 marzo 2020), e per principalmente intendo come intensità di contenuti e non come span temporale, ascoltando il Prometeo di Luigi Nono. Trovate la versione incisa per "col legno" interamente su Youtube, divisa in brani sotto forma di playlist. Con questo genere di musica contemporanea ho tutta una serie di problemi. Prima considerazione: mi piace, mi piace moltissimo, mi piace molto di più di tutta la musica classica propriamente detta, di tutti i grandi maestri del passato, di tutte le cose che gonfiano il cuore di gioia e struggimento. Mi piace anche molto di più del metal della mia adolescenza o di tutta la musica che ho fagocitato in questi anni (ok non di tutta). Ma, c'è un grosso ma: non ne so nulla, non so nulla di nomi, date, influenze, autori seminali, riferimenti ecc... non so nulla di musica scritta (tutti gli artisti compositori che conosco sono, appunto, compositori e di conseguenza scrivono della musica su di un pentagramma, per quanto in modo non ortodosso). Non so nulla del processo di composizione in quanto tale, l'atto di sedersi ad un tavolo e pensare la sequenza di suoni e ritmi avendo già in mente l'effetto finale. Quell'arte di saper mettere le cose al loro posto, l'arte di sapere gli strumenti a disposizione. L'arte della consapevolezza. 
Ascoltando Nono (ma anche altri) mi sono interrogato proprio su questa cosa, sulla capacità di essere consapevoli dei propri strumenti. Mi piace improvvisare e questo direi che si è capito. Ma sono veramente consapevole? La consapevolezza è un topic dell'improvvisazione? O forse è un limite? Cosa potrebbe portarmi la consapevolezza nella mia pratica "artistica"? Oggi ho fatto un brano. Mi piace, ha una sua narrazione che mi soddisfa anche se il mix fra le parte è orrendo e necessita di aggiustamenti. L'ho fatto proprio pensando a questa logica compositiva/consapevole. Quando Berio (per dirne un altro) mette quella nota per quella durata di quella voce in quel punto specifico è perfettamente consapevole dell'effetto che avrà nell'economia (la parola economia disturba piacevolmente la natura naive della conversazione) dell'opera. Ho bisogno di questa consapevolezza? Oppure quello che voglio è un significato ermetico, che emerge indipendentemente dalla volontà, emerge di per sé, aiutato solo a concretizzarsi dagli ultimi ritrovati della tekne (possono darti le certezze di...)? 
Esiste poi un limite netto fra ruolo compositivo e ruolo d'improvvisazione? Userò una risposta paraculo dicendo che la verità sta, come sempre, nel mezzo. Conoscere il mio strumento, le armi a mia disposizione, mi permette ovviamente di essere molto agile e curioso, creativo, anche all'interno del contesto di improvvisazione. Viceversa la spontaneità naive di suonare un violino senza averne mai preso in mano uno, riuscendo comunque a far scaturire quella magia epifanica del momento collettivo beh, quella è appunto magia e per quanto ne sia piacevolmente attratto, qui, in questa very sede ammetterò l'inammissibile: non mi soddisfa. Probabilmente non è mai stato un mio interesse esplicito ma l'immacolata visione infantile della comunione fra un uomo e uno strumento mai visto prima è insoddisfacente, è mutilata da l'incomprensibilità del momento. Preferisco cercare l'inspiegabile all'interno della relazione e non all'interno di un oggetto che non conosco. Le persone non sono oggetti, non le sto usando per raggiungere uno scopo. Uno strumento musicale lo è e io voglio eliminare le variabili che esso rappresenta, voglio che diventi una parte del mio corpo, non che possa essere aleatoriamente scambiato con qualunque altra cosa. Lo voglio conoscere e voglio (esattamente com'è) che si crei un legame affettivo, oltre che di utilizzo. 

Forse non è stato sempre così, lo ammetto, però ora la mia identità (??) artistica si sta spostando in questa direzione. Una direzione più organizzata, più "organizzativa", giri di parole perché non voglio dire compositiva. Significa in sostanza avere i tasselli, averceli ben chiari in mente e uno dopo l'altro metterli nel posto giusto, non al loro posto ma in quello giusto. Quello che è successo oggi, coadiuvato dall'ascolto di gente che ne sa un po' più di me, tende proprio a quello. Qui in quarantena ho solo ableton e dei microfoni (fra i quali il tascam) quindi niente moduli, niente strumenti veri su cui mettere le mani. Tuttavia la consapevolezza di dire: "ok, voglio questo suono, questo effetto, questo meccanismo e li voglio qui qui e li" c'è stata e con essa il risultato è apparso, sicuramente in maniera diversa dall'abitudine. Un problema di metodo, ecco cos'è. Come se vedessi l'altro lato del ponte ma non riuscisse a trovare la strada per percorrerlo. 


Questa è la traccia incriminata. Alla fine compare effettivamente il field recording di cui ho parlato prima. Gli scricchiolii sono scrosci articolari, gli altri suoni sono gemiti da tensione o stiracchiamento. I suoni percussivi sono estrapolati da un vecchio field recording nel quale percuoto una bombola di gas. I microframmenti sono prodotti estrapolando l'armonia MIDI da un qualche fieldrecording attraverso la comoda funzionalità di Ableton per poi dare tutto in pasto ad una wavetable, ovviamente settando i parametri di envelope in maniere scoppiettante. C'è del lavoro di pan sx/dx e altre piccole accortezze con riverbero e echo in send/return ma niente che alteri realmente l'essenza del materiale sonoro originario. 

Ho veramente pensato a quello che avrei dovuto fare per ottenere un determinato effetto e anche se il risultato si discosta ampiamente da un'ideale obiettivo, sono comunque piacevolmente sorpreso. Tutto era nato in realtà dal desiderio di esplorare la funzione "estrai armonia midi (o melodia, non ricordo)" contenuta all'interno di ableton. Da lì mi ero interrogato sul ruolo dell'algoritmo nei miei confronti: io do volontariamente qualcosa di non analizzabile ad un programma e mi aspetto che il programma (giustamente) fallisca. In questo fallimento però emerge l'estetica che cerco. Riflessioni sul glitch del sistema insomma, una falla nel corretto funzionamento di qualcosa genera godimento estetico. Perché? Perché mi attraggono le cose incomplete, asimettriche, bucate, inutili, non funzionanti, funzionanti male, funzionanti in maniera impropria? Forse sta nell'applicare perfettamente uno strumento a qualcosa sul quale non andrebbe applicato, come incastrare a forza il pezzo del puzzle anche se non è quello il suo posto. Capita la stessa cosa con l'immagine ovviamente: il glitch nei modelli 3d, il glitch attraverso audacity (forse il più corretto esempio poiché funziona facendo analizzare e modificare al programma delle immagini come fossero audio e viceversa), tutte cose che faccio... per quale motivo? Forse il mio interesse non sta nel risultato ma nel processo. O meglio, il risultato porta necessariamente il segno del processo, sono due cose indissolubili. Nel caso di uno strumento o di un modulo o di ableton stesso, io posso benissimo non sapere, non essere a conoscenza dei meccanismi informatici o elettronici che stanno dietro a una funzione e la mia ignoranza rende trasparente il segno che questi processi hanno sul risultato finale (sia esso immagine o audio)

ma quando conosco direttamente il processo questo diventa (se lo desidero) il contenuto dell'oggetto finale, si fonde all'estetica audio/video, ne fa parte. E contemporaneamente il fatto che il processo diventi opaco rispetto all'estetica, si sovrapponga a quanto ottengo avviene perché il processo stesso è fallato, è rotto oppure viene applicato in maniera corretta su qualcosa di improprio. è l'errore che fa apparire il processo. Ma questa cosa è già stata detta ampiamente: l'algoritmo si rende evidente solo quando non funziona, quando stona. Stesso discorso vale per l'abitudine, quando un elemento di un quadro conosciuto si muove ecco allora che tutto assume un significato nuovo, i dettagli divengono evidenti. 

Ok, abbiamo in qualche modo definito il procedimento "artistico" che mi porta ad avere un determinato risultato. Abbiamo spezzettato questo risultato e vi abbiamo (maddai) trovato tracce del processo utilizzato per giungervi. E quindi?
Abbiamo risposto alla domanda iniziale?
Perché mi piace?
Perché desidero che ableton faccia benissimo qualcosa che non è assolutamente in grado di fare?
Forse come dice Eco la risposta sta nell'indeterminazione del processo. L'estetica, l'oggetto amato è proprio quel processo. Un oggetto incompleto che descrive un processo rotto. In questa armonia nella disarmonia io trovo un godimento estetico. Esattamente come nella risoluzione armonica i grandi maestri della musica classica trovavano il loro.
Oppure non ne ho idea e la chiudiamo qui.

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martedì 3 marzo 2020

Mission e Vision )1)



Ieri ho avuto una visione. Stavo guidando in autostrada, in viaggio con mia madre. In quel momento ero triste e arrabbiato, scosso da alcuni avvenimenti di poco conto ai quali avevo attribuito un valore spropositato. In macchina c'era silenzio. Tutto ruotava nella mia mente tranne che una distensione, una risoluzione di quello stato emotivo. Avevo dato per scontato che avrei affrontato i problemi che mi portavano in quella landa di malessere direttamente, di persona, la mattina del giorno seguente ma, come molti di questi stati (e come molti di noi immagino) i dettagli ingigantiti possono predare la nostra quiete indipendentemente dalla volontà. Ma tant'è. Questo è l'abstract del mio aneddoto. 
Ci sarebbe (senza condizionale) da aggiungere anche un contesto più "esistenziale", il malessere che ognuno di noi poi trovare alla radice delle cose, che lo (più o meno ) accompagna nel corso della giornata e che nasce dagli errori, dai problemi non risolti, dai simboli ecc... dopo capirete meglio perché è doverosa questa aggiunta. 
Improvvisamente tutto scompare. Mi correggo. Non tutto tutto, non ho messo in pericolo la vita di mia madre né la mia né quella degli automobilisti con cui si condivideva il tratto di strada, ho continuato a guidare senza problemi, però la mia emotività, l'insieme mal definito delle mie sensazioni, delle mie emozioni, è stato trasportato in un territorio perfettamente reale e, devo ammettere, del tutto distante da quello che potrebbe essere (nell'immaginario comune) lo scenario di una visione. 
Mi sono trovato (mi trovo) in un'anonima zona residenziale, grigia, uniforme, non degradata o sporca o malsana, semplicemente pura, ordinata nei sui palazzi, nelle sue finestrelle tutte uguali nei suoi tetti spioventi. Era (è) giorno. Non ci sono persone, non parlo con nessuno, potrebbe benissimo essere un'immagine ferma. Non è una fotografia perché ero (sono) pervaso da un vero senso di esistenza, di esserci all'interno della visione. Mi sovviene l'immagine di una moderna città tedesca, o comunque nordica ma non danese né olandese. Forse scandinava. Non c'è neve ma fa relativamente freddo. Il cielo è grigio perlaceo ma non uniforme. Qua e là si intravedono nubi filiformi più scure sullo sfondo chiaro (o viceversa?). Non faccio caso alla vegetazione, non faccio caso a macchine o oggetti di arredo urbano. Non mi soffermo sulle luci alle finestre. Non noto rumori perché non ce ne sono. Tutto è immobile e mi avvolge. Sono il centro della visione, sono letteralmente la visione stessa (e come potrebbe essere altrimenti?). 

Bianco
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                                         Grigio


Sono gli unici colori, ovviamente declinati in mille sfumature. Una sfumatura di grigio è ancora grigio? Chi ha deciso la quantizzazione del pantone? Una convenzione culturale? Mi sta bene. 
Questa è la forma/forma-contenuto della mia visione. Ho subito pensato alla radura del significato, uno spazio presente/assente in cui possiamo immaginare l'essenza delle cose ma subito mi sono corretto perché l'essenza non la puoi vivere, si cela nel momento in cui si disvela. La mia visione non si celava, non celava il suo significato. Non era carica di simboli. E mi direte: certo che era ::_;,::_::____:_:-;;,..:-:_:__:_:-,.,,,,,..  carica di simboli. Come fa a non esserlo? Tutto è carico di simboli, tu solo, per una tua virtù autodiagnosticata, pensi di cogliere le cose così come sono? La mia risposta è

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I vostri argomenti non mi interessano. O meglio. Mi interessano ma non stiamo parlando di simboli. Stiamo parlando di totalità, di visioni. Non voglio spiegare qualcosa, non voglio disvelare, non voglio spiegare, non-piegare. Io voglio piegare, voglio accartocciare, voglio confondere, far implodere il senso su sé stesso. Spiegare e stirare sono due cose che odio.

La visione porta con sé la calma delle forme e delle geometrie, il senso di introspezione che solo guardare da una delle tante finestre uguali di tanti edifici uguali può dare. La percezione dello spazio come estensione di sé, incluso in un contesto residenziale anonimo e in scala di grigi è quasi liberatorio, catartico. E mentre mi trovo lì, contemporaneamente fuori e dentro e in macchina, ecco che il malessere si sgretola partendo dalle piccole contingenze quotidiane, puntuali, per poi passare a questioni più profonde, raggiungendo il male che si annida fra i ricordi e che quasi contribuisce al fondamento dell'identità. Un evento rapido e totalizzante. Un albero marcio che va in pezzi partendo dalle piccole foglie di morte ancora attaccate all'estremità dei rami.
Cosa può esserci di così definitivo, di così totale? Niente, e infatti la visione ritorna ad essere tale nel momento stesso in cui cerco di viverla, il benessere torna ad essere una delle parti del tutto, le contingenze e i problemi dell'esistenza ritornano intatti ad occupare il loro posto.

Quindi?

Non pretendo che un evento epifanico cancelli tutti i debiti che ho contratto con me stesso e con gli altri. Sarebbe troppo trascendente, sarebbe una paraculata pseudo-religiosa. Una visione può essere rievocata, può essere utilizzata per raggiungere uno stato di quiete più oggettivo rispetto al caos della realtà. Come se le linee ordinate delle palazzine uguali, nella loro piacevole gradazione di grigio, fossero lo schema sul quale raddrizzare i turbamenti interiori e renderli proporzionati, meno aggressivi e illogicamente schiaccianti, invincibili. I problemi umani rimangono tali, non escono da noi, non acquisiscono vita propria, non soverchiano con la potenza di un dio.

La visione è realmente successa qualche settimana fa (1 e mezza rispetto alla data di pubblicazione). Quando scrivo qualcosa che riguarda il presente ma poi lo pubblico nel futuro (che è ora presente) questa sensazione di spostamento spazio-tempo è sempre piacevole. Mi fa riflettere su quanto effimera sia la consequenzialità degli eventi, considerando che una visione, una cosa che secondo il nostro modello (e il mio) trascende la cronologia, convive forzatamente con l'accettata teoria di cause-effetto storica. Le due cose possono esistere contemporaneamente? Forse sì, forse no. Forse mi piace negare con una visione il senso comune del tempo oppure semplicemente mi piace dire cose su argomenti dei quali non conosco nulla.