Sarebbe stato molto carino trovare la bozza di un post già imbastito, una cosa che mi è successa spesso a dire il vero. Potrei anche chiudere qui questa stesura, lasciare tutto fermo e virtualmente consegnarlo al me del futuro che leggerà queste righe e penserà: "bravo, ottima idea!". Ma la verità è che il me del futuro sono io, le cose accadono completamente e contemporaneamente, non c'è consequenzialità, o almeno non in questi ambiti di scelte e conseguenze (retroattive).
Mi soffermo un secondo sulla nuova interfaccia di blogger e dico: va bene, approvo.
Mi soffermo un secondo anche sulla scelta musicale che accompagna la stesura di questo post: i Motorpsycho. Anche in questo caso approvo.
Poco fa (qualche ora) ho affrontato la questione estetica delle mie produzioni artistiche da un punto di vista insolito (ma non nuovo): e se fosse una forzatura tutto questo cercare l'alterità, la sorpresa, l'alieno e l'inusuale? Ma poi inusuale per chi? Per cosa? Per quali criteri? Ad ogni modo un fondo di verità esiste, non nego di aver a volte pensato, di fronte ad una linea melodica per esempio: "ma perché non può piacermi? Ma perché devo continuare ad arrovellarmi cercando soluzioni contorte quando la verità estetica si sta manifestando davanti a me spontaneamente, senza neanche doverci riflettere troppo?"
Possiamo chiudere il discorso rapidamente aperto tirando in ballo la soggettività e i suoi inspiegabili cambiamenti. Scavando però arriviamo al mio amato gorgo nero che non mostro. Mi piace la teoria che la creatività e la creazione siano un atto di complicità, o per meglio dire di compromesso, con qualcosa totalmente estraneo all'umano. Qualcosa che, stando fuori, nel vuoto, non nel pieno del materiale, della pagina, dell'onda sonora ecc..., allaccia una strana relazione con noi. Questo qua sopra è puro pensiero Negarastaniano. Negarestani è un filosofo iraniano non proprio di facile lettura che ha, fra le varie cose, teorizzato (non per primo) il rapporto che esiste fra autore e creazione. Quella che a prima vista può sembrare una dinamica piuttosto banale, si rivela in realtà un qualcosa di quasi "contorto e perverso": il materiale che uso per la mia creazione, sia esso suono, pietra, parole, carta, merda, pensiero ecc... esiste e "desidera" di per sé, al di fuori di me e della mia volontà. Tutto questo viene chiamato "materiale anonimo" che segue delle leggi e dinamiche il più delle volte non conoscibili o comunque sicuramente non fisico/matematiche. Quando giudichiamo qualcosa di "artistico" cerchiamo in vario modo di appellarci a criteri come l'estetica, il valore economico, la simmetria, l'armonia, la proporzione, il contenuto ecc... ma la realtà è che, nel caso per esempio di un'opera giudicata geniale oppure "bella", la contingenza del materiale extraumano ha semplicemente deciso (termine improprio) di sovrapporsi alle volontà del creatore.
Decisione e desiderio sono concetti umani, che non appartengono al materiale con il quale stiamo creando. Il materiale esiste, certo, ma l'unico modo con cui possiamo definirlo è "anonimo" ovvero inconoscibile e "contingente". Mi sono andato a vedere la definizione di contingenza ed è
contingènza s. f. [dal lat. tardo contingentia, nel sign. filos.; il sign. 4 da contingente «tangente, contiguo»]. – 1. a. L’esser contingente, accidentale, non necessario. Filosofia della c. (o contingentismo), indirizzo di pensiero sorto in Francia nel sec. 19° come reazione al positivismo e al materialismo; esso negava il carattere di assoluta necessità delle leggi naturali, affermando conseguentemente la contingenza delle varie forme di realtà. b. Con sign. concr., le cose contingenti: La c., che fuor del quaderno De la vostra matera non si stende (Dante).
L'essere accidentale, non necessario mi ha spaccato. Secondo Negarestani quello che possiamo fare è accettare questa contingenza, "aprirci" alla contingenza. Ma l'apertura non è vista in senso di "accettazione zen". Non la quasi passività orientale (inconoscibile per me, inconoscibile per lui, me ne rendo conto). Accettare significa già operare una selezione delle possibilità. Fra me e il materiale si crea un sistema complesso e questo sistema complesso ha una sua "ecologia". Non possiamo prescindere dalle regole quasi termondinamiche che inevitabilmente regoleranno questo ecosistema. Per esempio ci sono delle cose che l'ecosistema tollererà in quanto fisicamente possibili e altre che non accadranno mai perché troppo dispendiose per il materiale o per me. Quindi è anche possibile che non succeda assolutamente nulla.
A prescindere da questo però, che è uno scalino successivo, è utile soffermarsi sul concetto di materiale anonimo, o meglio l'attribuzione, da parte del filosofo in un agency, un programma/progetto/volontà al materiale con il quale sto lavorando. Cambia tutta la prospettiva: passiamo da una visione monodirezionale, in cui esiste l'autore ed esiste l'opera, ad una visione sistemica, ecologica in cui esistono rapporti fra due entità distribuiti secondo vettori di contingenza, probabilità, apertura e chiusura. Tornando a prima questo stravolge completamente l'idea di giudizio, di estetica, di piacere ecc... applicabili, nel mio caso, alla musica. Non si tratta più quindi di domandarsi come fare una cosa ma di riflettere sul perché si sviluppino certe dinamiche piuttosto che altre. Non si tratta di acquisire conoscenza per poi riformularla secondo i propri canoni e principi estetici ma di cambiare prospettiva, inserendo l'ecologia del rapporto fra autore e materiale all'interno dell'equazione. Per approfondire quest'ultimo punto, è chiaro che un musicista classico porterà con sé un bagaglio enorme di conoscenza ma questa nuova visione artistica che proponiamo gli permette di inquadrare conoscenza (tecniche e teorie) e materiale (lo strumento, il suono) secondo una prospettiva, come accennato prima, biunivoca e ecologica. Quindi non stiamo rinnegando lo studio ma l'approccio antropocentrico (termine che odio ma che in questo caso è appropriato) alla creazione, come se implicitamente con il termine creazione appunto, stessimo ammettendo che il materiale con cui lavoriamo è inerte, assoggettato completamente al nostro volere, plasmabile nella sua interezza, liscia, accessibile, continua, ottusa. Ovviamente non è così. I materiali con cui lavoriamo sono porosi, grezzi, frastagliati, taglienti, irregolari, asimmetrici, fino a divenire sfigurati, orrendamente cavi e oscuri, ci schiantano con la loro complessità non euclidea e ci impongono una razionalizzazione che, alla fine, chiamiamo volontà.
Le procedure di randomizzazione e di chance, squisitamente Cageiane, ma non solo, sono una modalità con la quale la nostra agency viene annullata (parzialmente) e viene favorita quella del materiale. L'anonimato di cui parla Negarestani può essere anche questo e lo stupore (e orrore) che ci pervade nel momento in cui il materiale prende il sopravvento e si manifesta, chiaramente nei limiti ecologici del sistema che abbiamo (noi?) imbastito.
Noi? Il nocciolo è questo in fondo: ammettendo che l'improvvisazione totale o parziale all'interno di un sistema chiuso o semiaperto come quello della performance sia un modo per evocare l'agency del materiale, la costruzione del sistema stesso da chi viene fatta? Da "noi" intesi come agenti di volontà oppure in maniera iperstizionale dal materiale stesso? Se noi conosciamo il potere di questo strano rituale evocativo (e lo conosciamo attraverso l'esperienza), e imbastiamo il contesto affinché gli effetti sperati si manifestino, è la manifestazione stessa a agirci per condurre alla sua stessa realizzazione. In questo arcano meccanismo di feedback parole come volontà o intenzionalità, sono spiegazioni razionali che si infrangono nell'inconoscibile, nell'epifania del momento, nella comunione delle menti che tutti tanto abbiamo cercato e esperito. E se fosse semplicemente la meraviglia derivante dalla possessione, di fatto, dalla manifestazione o evocazione di un qualcosa, di un inconoscibile che non appartiene a noi ma all'anonimo materiale con cui stiamo entrando in contatto, singolarmente oppure in comunità?
Vista in questi termini tutta l'attività artistica, nei suoi aspetti contingenti, ovvero non strettamente intenzionali (passatemi la semplificazione), acquisisce tutta un'altra sfumatura: la potremmo immaginare come il risultato di forze plurime multidirezionali, ciascuna derivante dall'agency di materiali diversi (materiale è anche il contesto in cui la performance si sviluppa per esempio). Chiaramente non è nemmeno corretto parlare di risultante al singolare: una performance è un evento di una complessità insondabile e di conseguenza insondabili e numericamente molteplici sono le forze in gioco, ciascuna caratterizzata da vettori di azione diversa.
Ripetendo il concetto di prima, queste forze possono essere più o meno intense e sensibili a seconda dell'utilizzo della premeditazione e della volontà da parte del soggetto (essere umano per intenderci): se mi siedo davanti ad ableton e creo una traccia pezzettino dopo pezzettino la contingenza e casualità di questo processo è molto bassa (ma non nulla).
Tutto questo a che cosa porta? A niente di speciale mi verrebbe come prima risposta. In realtà, dal mio punto di vista, dovrebbe portare almeno alla considerazione che i materiali con cui agiamo nel nostro operato artistico non esistono poiché subordinati al nostro volere onnipotente ma agiscono in maniera quantomeno parallela (con un'oscillazione fisiologica come visto prima). Stessa cosa vale per il contesto in cui operiamo che dovrebbe essere visto anch'esso come dotato di agency indipendente al nostro controllo o volere.
Possiamo spingerci ancora più nel dettaglio, usando l'ambito prettamente musicale come esempio: un suono è un fenomeno fisico al quale noi, come esseri senzienti, diamo una serie di caratteristiche, caratteristiche più o meno agenti su di noi come fenomeni percepibili. Mi spiego: la vibrazione fisica che avvertiamo a frequenze molto basse e che fa letteralmente risuonare il nostro corpo nella sua interezza, non è percepita a frequenze più alte. Questo però non significa che non esista. Ci sono quindi dei limiti alla categorizzazione delle qualità di un fenomeno. Possono essere qualità di un fenomeno che noi ignoriamo e che cataloghiamo come inesistenti ma che di fatto sfuggono la nostra capacità di comprensione e che, possedendo comunque una agency, agiscono indisturbate all'interno dell'ecologia della performance. Questo potrebbe essere un altro, ulteriore, modo di lettura anche perché, se agiscono indisturbate, la loro azione potrebbe manifestarsi indirettamente attraverso la variazione di fenomeni da noi percepibili e percepiti. Si configura quindi la struttura di un sistema in cui gli elementi possono relazionarsi in fenomeni di variabilità: l'azione di un elemento varia le caratteristiche di un altro. Senza dimenticare i possibili meccanismi di feedback che si vengono a formare e che complicano in maniera via via più indecifrabile il sistema stesso.
Potremmo utilizzare un'astrazione a me molto cara per avvicinarci al concetto di sistema agente come dalla definizione di Negarestani. Parlo ovviamente di un qualunque sistema modulare (meglio fisico ma va bene anche software). Un sistema modulare è uno strumento ecologico composto da singoli elementi interfacciati fra loro allo scopo di produrre (sintetizzare) un suono o un insieme di comandi destinati al controllo di altri agenti esterni al sistema (un sistema modulare di controllo, poco frequenti ma possibili). Ci focalizzeremo sulla sintesi del suono. Ogni modulo viene concepito con una o più funzioni i cui contorni possono essere sfumati sia per il volere dell'ideatore, sia per le modalità di interfaccia che il musicista decide di compiere. La funzione standard quindi è relativa e anzi, l'utente finale è incoraggiato alla scoperta di comportamenti aggiuntivi nati dalla complessità dell'iterazione. L'agency dei singoli moduli sfugge al musicista sia per ignoranza tecnica (il linguaggio del modulo non è il linguaggio umano e la velocità di trasmissione di un suono o di un segnale sono inintelligibili) rimanendo sempre nascosta dall'effetto sovrastrutturale che ha sul suono, elemento che il musicista cerca e che è in grado di percepire. Possiamo aumentare la nostra consapevolezza sull'agency dei moduli utilizzando degli strumenti di analisi come un oscilloscopio, ma non riusciremo ma a cogliere l'interezza del singolo elemento e la complessità delle sue relazioni con gli altri, con noi e con il sistema. Per quanto quindi un sistema modulare sia, rispetto al sistema ecologico teorizzato parzialmente prima, qualcosa di bidimensionale (potremmo dire suono/segnale per semplificare), già così è completamente al di fuori dal nostro controllo, facendo emergere l'agency del materiale (i moduli, la comunicazione fra i moduli e il suono). Resta il fatto che anche il sistema modulare è un sistema ecologico e presenta quindi dei limiti di fattibilità: l'agency del suono (stratificata secondo caratteristiche intellegibili o meno, può agire su altri parametri, modificandoli, solo se le condizioni del sistema lo permettono; noi stessi possiamo agire sui moduli e sul suono solo se le condizioni sono favorevoli e così via.
Anche il concetto di contingenza può essere facilmente speso nell'azione di un sistema modulare: gli eventi accidentali, non necessari, avvengono sovente nella pratica artistica e anzi, possono essere il punto di partenza per percorsi inattesi che retroagiscono poi sulle premesse sviluppandole ancor più, facendo emergere complessi meccanismi di feedback.
Sistema modulare quindi come esempio perfetto di ecologia, in cui il materiale anonimo emerge nella sua agency, palesando forze sconosciute che, indirettamente, modificano il risultato della performance e la nostra percezione di esso. Lo shift artistico a cui stiamo assistendo, grazie al quale sempre più musicisti cercano di implementare tecniche di sintesi del suono o filosofie dell'improvvisazione, nella loro pratica, anche classica, potrebbe portare ad un emergere massiccio di questa agency anonima determinando, infine chissà, uno shift anche del gusto estetico e dei canoni di ascolto.
Sistema modulare quindi come esempio perfetto di ecologia, in cui il materiale anonimo emerge nella sua agency, palesando forze sconosciute che, indirettamente, modificano il risultato della performance e la nostra percezione di esso. Lo shift artistico a cui stiamo assistendo, grazie al quale sempre più musicisti cercano di implementare tecniche di sintesi del suono o filosofie dell'improvvisazione, nella loro pratica, anche classica, potrebbe portare ad un emergere massiccio di questa agency anonima determinando, infine chissà, uno shift anche del gusto estetico e dei canoni di ascolto.
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