domenica 22 ottobre 2023

ancora


ancora ricollocamento funzionale. questo sarà un post estremamente critico e risentito. partiamo da una traccia per arrivare ad una serie di concetti. 

in questa traccia c'è un'esteso uso del riverbero, o meglio, del gated reverbero, un effetto che viene attivato da un segnale ad una certa intensità, superando quindi il "cancello" del nome. non è il gated riverbero di peter gabriel di cui behringer parla nel manuale del "virtualizer pro" (unità rack dalla quale questo riverbero proviene) ma è un riverbero ibrido, situato e de-situato nel confine fra sua natura ed "altro". il perché di questo situarsi e de-situarsi è facilmente intuibile ai lettori di questo ormai vecchio blog: l'effetto non è usato in modo ortodosso ma viene ricollocato, sradicato dalla sua posizione economico-musicale e reimpiantato in un terreno nuovo, in particolare in una fitta ecologia di feedback. 

la mia pratica artistica è sempre stata un saliscendi di quesiti sull'uso o meno di determinate tecnologie musicali. recentemente mi sono trovato a dovermi confrontare con effetti "storici" nella musica elettronica, anche di ricerca e anche più periferica, come il delay e il riverbero eeeeeeeee.. stop..

e ripresa. ok tutto vero. mi sono confrontato con diverse tipologie di effetti, sia storici che meno storici. delay, riverberi, tremoli, auto-pan, filtri ecc... ma nel contempo mi sono anche domandando che cosa rende una cosa, per me, estetica. per trovare una risposta meno scontata di "perché di sì" ho provato in vari modi:
- sicuramente NON leggendo della theory e forse questo è stato un errore; 
- chiedendo ai miei pari affini; 
- chiedendo ai miei pari non affini; 
questo operazione ha prodotto moltissimi risultati diversi fra loro. 
Ciascuna intende la propria estetica artistica in maniera molto diversa. E questo intendere può condurre a risultati veramente distanti fra loro. C'è che affida tutto a una non ben specificata "esperienza" intendendo che la sua estetica presente sia il risultato degli ascolti e riferimenti collezionati nel corso di una vita (forse presupponendo che solo dopo una vita intera di collezione si comincia a capire qualcosa? ma rigetto con forza questa idea ovviamente). 
altre si concentrano sull'intermedialità: "la mia estetica deriva da ascolti, letture, visioni, non necessariamente musicali che poi convergono all'interno di un quadro estetico più complesso". OK chiaro però rimane il problema di con che criteri scegli gli altri riferimenti intermediali. non mi soddisfa sapere che per fare un brano pensi a un quadro o viceversa, io voglio sapere perché scegli quel quadro, o perché quando componi pensi ai buchi neri o al porco dio. 
tutto questo per dire che la risposta ancora non è arrivata.
anche leggendo della parziale e breve theory le domande rimangono abbastanza invariate. l'estetica viene (ovviamente) intesa come qualcosa di formale e quindi si analizza, per esempio, l'improvvisazione, usando dei criteri filosofici quasi metodici, focalizzandosi su, da un lato, la contrapposizione alla forma delle composizione tradizione non improvvisata, da un altro i ben noti concetti di composizione istantanea, azione-reazione, imprevedibilità ecc... rileggendoli sotto una luce formale e, appunto, estetica. 
senza contare il fatto che si parla prevalentemente di improvvisazione jaaaaz e non di improvvisazione radicale di altra natura. 
c'è il tema dell'errore e dell'apertura umile all'imprevedibilità, entrambi concetti riletti in chiave estetica. tutte cose fondamentali ma non nucleiche. il problema però è che giriamo sempre attorno a qualcosa senza riuscire ad arrivarci completamente. o ci appelliamo ad un estetica divina o immutabilmente kantiana, oppure cerchiamo risposte in qualche stronzata psicoacustica o psicologica. ma piuttosto che dare credito alla psicologia sperimentale preferisco dare credito ai grandi antichi. il fatto che una melodia stimoli in me ricordi o sensazioni e che queste sensazioni e ricordi derivino da una particolare attivazione cerebrale a me, che cazzo me ne frega. cioè sinceramente, che cazzo me ne frega. cosa mi aggiunge, cosa mi dovrebbe far dedurre, in che modo dovrebbe arricchirmi se non scartavetrandomi i testicoli con cagate meccaniciste. ok uao incredibile è solo un insieme di neuroni che si scambiano dei simpatici messaggi elettrici incredibile such cool such uao. ma non hai comunque risposto alla domanda, hai solo trovato un sofisticato meccanismo (che nemmeno capisci fino in fondo). hai trovato una funzione, hai scoperto come accadono le cose materialmente ma non riesci nemmeno a dare una forma all'oggetto, alla cosa metafisica che stai osservando. è solo un insieme di lucine che si accendo e spengono ma non sai nemmeno come chiamare quello che osservi. capiamoci, e capiamoci molto bene: questa roba non è una scienza, non è misurabile, non è quantitativa. toglietevi dalla testa di poter studiare con un metodo "scientifico" questi fenomeni. già sento qualche mentecatto psicologo dire "eh ma il cervello si accende una frazione di secondo prima che tu riesca a verbalizzare l'azione che fai quindi in realtà non c'è libero arbitrio", dio cane ste robe mi fanno strippare. grazie dio della psicologia moderna per avermi concesso questo frammento della tua immensa conoscenza chissà come avrei fatto senza, una vita senza significato sicuramente, grazie a questa preziosissima informazione potremo finalmente costruire una nuova società più libera e uguale, privata dall'arbitrio e quindi dal male. ma guarda un po', cosa vedo, dell'arbitrio NONOSTANTE la preziosa informazione che ci hai donato, chissà come mai. ma vabbè lasciamo perdere la società e il mondo reale, soffermiamoci sulla performance e improvvisazione. appena sento uno di questi sedicenti premi nobel affermare che l'epifania del frammento presente è illusoria perché tanto è tutto privo di arbitrio mi faccio esplodere. e la chiudiamo qui. l'ontologia e la percezione sensoriale sono cose sfuggenti e, personalmente, la pretesa di poterli spiegare semplicemente sezionando metaforicamente le funzioni del cervello mi sembra proprio:
- una stronzata
- una pomposa supponenza umana
- un modo per riempire il vertiginoso vuoto di senso che si percepisce oltre i frastagliati margini della realtà, un vuoto abitato da creature non euclidee vermiformi fatte di assenza. perché ricordatevelo bene, ogni epistemologia è valida esattamente come le altre, soprattutto quando si cerca di costruire un'ontologia dell'improvvisazione.

c'è però un'evoluzione di questo discorso, diciamo una doppia evoluzione, un doppio svolgimento. la prima parte riguarda il fatto che, recentemente, ho assistito ad una perfomance. una perfomance che non mi è piaciuta e nella quale ho ben identificato gli elementi estetici che non vorrei abitassero ciò che faccio artisticamente. oltre ad identificarli, questo ragionamento per difetto ha poi automaticamente permesso di delineare i contorni degli elementi che invece sì, mi interessano. invece di tracciare una linea anneriamo lo spazio vuoto attorno. è anche questa un'ontologia come sappiamo. 
l'altro binario riguarda una conversazione interessante con un persona che stimo artisticamente e che mi ha permesso di riflettere su alcune dinamiche estetiche-contenutistiche che avevo intravisto solo in un ambito molto diverso. 

la perfomance di cui parlo si è svolta in un contesto informale molto bello e molto carico di potenzialità. purtroppo per tutta una serie di motivi, che potremmo anche analizzare in un post successivo o accennare in questo, questo genere di situazioni vengono come parassitate da comportamenti stereotipati che molto hanno a che vedere con la gerarchia dell'età (in un caso) e dell'esperienza (nell'altro). queste due mura impediscono la trasparenza dell'atto artistico spontaneo che, manca questa premessa in effetti, si ha la pretesa di voler proporre. in sintesi: sulla carta una performance per strumenti acustici ed elettronica, destrutturata e ampiamente basata sull'improvvisazione, preceduta da una sontuosa e autoreferenziale spiegazione di come le musiciste siano arrivate all'illuminazione di questo e di quello. già questa sontuosa e autoreferenziale premessa produce in me dei sentimenti molto discordanti, fra il voler andarsene il desiderio di assistere ad ogni modo. la comunicazione è un contenuto (possibile) dell'atto artistico. non è necessario spiegare qualcosa a parole a meno che io non te lo chieda direttamente. su questo punto entreremo più nel dettaglio in seguito ma per adesso è sufficiente sapere che, ovviamente stiamo sempre parlando della mia sensibilità personale, atti artistici come questi non necessitano di una spiegazione a priori perché contengono già in sé tutti gli elementi per il proprio stesso svolgimento e per una, volendo ascoltare, attenta autoesplicazione. forzare a parole un qualcosa che parole non richiede significa aggiungere un livello semantico non richiesto, significa incasinare tutto. e si incasina tutto proprio perché l'eventuale spiegazione deve essere atto condiviso fra tu che suoni ed io che ascolto, la responsabilità dello svolgimento di qualcosa di aperto (opera aperta si intende) è condivisa e avviene da un lato durante lo svolgimento stesso, da un lato dopo la performance ma sicuramente non prima. spiegarmi qualcosa prima che sia successo è come minino interpretabile come spocchia. ed è proprio spocchia la parola che mi viene in mente quando penso a quanto ho assistito. 

se qualcosa non vi è chiaro fate domande, non fate discorsi. lo dicevano gli uochi toki un miliardo di mila anni fa. 
quindi gli elementi estetici che per "difetto" sono emersi e verso i quali propendo, sono contenuti nel dominio del movimento più che del suono. sono elementi estetici gestuali. sono "agire" sullo strumento, collegare l'azione al suono. viceversa la pura stasi dell'ecosistema, la passiva percezione dell'evoluzione di un qualcosa oltre il nostro controllo, non la reputo più valida come la reputavo alcuni anni fa. mi piace l'incarnarsi del momento all'interno del corpo, la materializzazione dell'atto-movimento-suono. l'urgenza espressiva che spesso sfocia nell'estensione dello strumento oltre i propri limiti, la resignificazione, il ricollocamento funzionale appaiono qui come necessità ontologiche, necessità vitali per l'atto artistico: se il momento presente mi spinge oltre i limiti di quello che sto facendo significa che è lì che devo andare; negare questa necessità significa negare l'esistenza stessa dell'urgenza e quindi del momento artistico, del contenuto di ciò che sto facendo. torno al discorso precedente: non può essere comunicazione in questo, non puoi spiegarmelo con parole umane comprensibili e sicuramente non puoi farlo a priori. se spieghi questo a priori significa che ti stai costruendo i limiti insuperabili del sistema di riferimento, stai truccando la partita, stai limitando le mosse. 

ma in realtà è ancora più affascinante considerare il punto di vista esterno, un'estetica al di fuori che possa osservare e raccogliere suggestioni da poi condividere. la distanza che mi separa dalla "stasi passiva dell'ecosistema" per qualcuno potrebbe invece essere facilmente colmata anzi, potrebbe per me rappresentare un certo valore estetico. quindi dove sta la ragione? dove sta la verità? probabilmente da nessuna parte. 
lo stesso vale per la mia ritrosia nel considerare la melodia, il riverbero, i bordoni e tutte gli altri orpelli che classicamente attribuisco a un contesto "jam session". recentemente questa mia consapevolezza è stata messa in crisi e, con estrema difficoltà, è nato piuttosto un desiderio di analogia più che di conflitto. il conflitto può scaturire nell'urgenza e nella dinamica espressiva ma spesso l'unica cosa che determina è una serie infinita di soliloqui e incomunicabilità. certamente per qualcuna, la capacità di sapersi reinventare e adattare al contesto è una caratteristica inalienabili e sostanziale di qualunque contesto free impro. ma se fosse il contrario? se fosse in realtà un lavoro personale di adattamento e malleabilità nei confronti di estetiche e praxis lontane da noi, lontane dalla nostra sensibilità? anche qui la verità forse non sta da nessuna parte. però è interessante approcciare il conflitto da questo lato. dal lato dell'accettazione piuttosto che dell'antagonismo a tutti i costi. forse lassismo? dopo l'accettazione può venire la modifica, può succedere lo sviluppo. e soprattutto è anche una questione di aspettative e frustrazione delle stesse, di asticelle e di canoni. ciò che per me è imprescindibile per un'altra può essere irrilevante e viceversa. il terreno di gioco serve proprio a questo, a delimitare degli spazi, a intersecare aree comuni e, allo stesso tempo, a rompere quegli stessi spazi, tracciare nuove linee di gioco e superarle ancora. non è detto però che tutte giochino con le stesse regole. serve forse una traduzione, o una mediazione? il processo estetico sarà quindi quello e non il raggiungimento di un ideale precedente e magari anche un po' stereotipato. e non parlo di gerarchia, condividere una mediazione magari rinunciando a qualcosa di nostro non significa cedere e costruire qualcosa di minore qualità. anzi, forse significa acquistare un nuovo grado di consapevolezza di "stare assieme". 
e il saliscendi di opinioni su questo tema mi fa forse sembrare un po' un rimasto ma al momento la sensibilità che mi caratterizza si spinge più verso la mediazione che verso il contrasto. magari domani sarà diverso, magari fra un anno sarà tutto annullato e tutto nuovo. 




mercoledì 5 luglio 2023

baxie



  e infine la domanda definitiva (ma già altre volte è emersa in modo più o meno esplicito, fra le righe, nei dubbi di soliloquio): può la verbalizzazione portare a una minima catarsi? questa volta non parliamo di problemi artistici o estetici, nemmeno problemi morali. parliamo di eventi che generano conseguenze apocalittiche nella vita delle persone, parliamo dell'ipotesi e del dubbio che spalancano baratri di possibilità angoscianti, magari anche (relativamente) brevi, ma pur sempre gravate da un senso di impotenza e annichilimento totalizzanti. 

come possiamo collocare la pratica artistica in tutto questo? una domanda che quante si sono fatte prima di me. forse la maggior parte di coloro che hanno, almeno un minimo, grattato la superficie forse. che risposta si sono date? di esempi ce ne sono a centinaia di migliaia. chi più chi meno ha trasferito una piccola parte di quell'angoscia in qualcosa di estetico. e l'estetica di quel qualcosa ne ha ricalcato i contorni, ne è diventata simulacro, immagine nel ricordo. oppure totem, al quale poi qualcuno o qualcuna ha dato fuoco inalandone poi le ceneri, veleggiando verso altri lidi, altri tudini. 
la consapevolezza è una bestia davvero strana. una condanna. mi ricorda Dune e la preveggenza, un dono oscuro capace di proiettarti in una mare infinito di strade e incroci e ponti e possibilità nel quale perdere tutto (e basta, senza guadagnare). ma è possibile ancorarsi a qualcosa per non perdersi? forse no. come facciamo a superare lo scoglio. 

forse la prospettiva ci inganna, tutti i livelli, sempre più sfocati in lontananza, nel momento presente della consapevolezza sono compressi in un unico quadro aberrante ma irreale. la progressione degli eventi non è fatta così, non segue una linearità ma un saliscendi di intensità e basse maree, una funzione non spiegabile matematicamente, una costellazione, un sistema di radici, uguale a sé stesso in ogni punto eppure così diverso. 
eppure mi è così difficile rincorrere la velocità dei miei pensieri e delle mie paure. mi sembra che le possibilità future siano così schiaccianti da opprimere anche il passato, renderlo pallido e insignificante. compromettono con forza le basi su cui mi reggo, a chi sto scrivendo questo? a me stesso forse. anzi sicuro. non sono sicuro che mi interessi la lettura da parte da altre da me. e anche se fosse, sarebbe forse bello, sarebbe forse meglio. anche questo è un rizoma, un sistema, una costellazione. 
che sia vero o meno, senza dubbio si tratta di un nodo, un fulcro, un passaggio, una prova. e nello scrivere mi rendo conto che se dovesse essere vero, tornare su queste righe, tornare su questo pagine, mi sarà impossibile. sarà annichilente, sarà umiliante perfino. e non lo farò, non lo farò più. 
..
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ho riflettuto molto sul tornare o meno ad editare questo post. chiaro, l'evento prospettato nelle righe precedenti non si è verificato (per fortuna). rimane la consapevolezza del punto di passaggio, una sorta di strana illuminazione attraverso il fuoco. molto doloroso ma anche, in un certo modo, utile. 
questo post rimarrà così, intoccato, a futura memoria. come profetizzato tornerò su queste pagine abbastanza presto. 



giovedì 29 dicembre 2022

Limbo(lo) come uno dei 7/6 nani





si chiamerà limbo(lo) e parlerà dei limbi intesi come spazi fra le cose, entità indicabili (con un dito) ma non definibili (con la parola). ho deciso che metteremo al bando le lettere maiuscole. l'uniformità del minuscolo è molto più estetica. così come mettiamo al bando le formattazioni pompose e altre situazioni grafiche che, arbitrariamente 

E STOP

e ripresa. interrotta da un evento improvviso una settimana fa. non ricordo nemmeno di cosa stavo parlando, o meglio, di cosa volessi parlare perché l'unica cosa che so è che sta formalizzando un pensiero prima che sonasse (voluto) il telefono. 

[
ok possiamo sempre virare il tutto verso un argomento aleatorio ma conosciuto (e conoscibile): la mancanza della magia come strumento per decodificare la realtà. 
come facciamo ad accedere all'incomprensibile? possiamo: 
- utilizzare la fede;
- comprenderlo;
- non comprenderlo e goderne;
- non comprenderlo ed averne paura (o altro alla paura relazionato);

la comprensione è l'approccio più inflazionato: non conosciamo una cosa ok, studiamo, inserendola più o meno forzatamente in un sistema di riferimento e ok, l'abbiamo conosciuta e possiamo accedervi (magari utilizzandola per spiegare altre cose inconoscibili, in un intricato sistema di rimandi di matrioske). è il caso della scienza e del metodo scientifico, parto da un'ipotesi (basata su altri sistemi di ipotesi e premesse, anche a propri) e poi raccogliendo i dati arrivo ad un obiettivo di conferma o confutazione. va bene poi dentro ci mettiamo di tutto, la statistica, la quantistica, più o meno matematica, molto linguaggio, della probabilità ecc... e arriviamo alla conclusione che viviamo in un sistema di leggi verosimili perché autoreferenti ecc... ok ci sta nessuno mette in dubbio questo. 

accanto a tutto questo abbiamo altri sistemi, che chiameremo "minori", che aiutano a spiegare, in maniera contestualizzata e altrettanto autoreferente, fenomeni che i sistemi "maggiori" non sono in grado di spiegare. fra questi sistemi minori la magia, magik ha un ruolo. deve avere un ruolo. 
genesis p-orrige, all'inizio della bibbia psichica, cita la sensazione di totalità provata da bambinu guardando la scorrere del paesaggio dal finestrino del treno. è un'esperienza epifanica, non possiamo definirla altrimenti. è il nocciolo della soggettività ultima, inspiegabile, inconoscibile. non si avvicina semplicemente ricorrendo ad un sistema di riferimento maggiore. ma neanche minore forse. lo si esperisce nell'immane momento presente, lo si accetta, lo si abbraccia come epifanico e lo si riverisce. il punto successivo, giusto per rimanere in tema magik e bibbia psichica è automaticamente l'orgasmo, l'esperienza sessuale, un momento di così profonda e inconoscibile intensità corporea può essere solo approcciato con lo strumento minore della magia epifanica. 
anche l'atto creativo è questo: le trame del gorgo oscuro che non mostro sono magike, non appaiono per deduzione. o meglio, tutto dipende dalla sensibilità del singolo. un artista può manipolare la materia della propria arte (suono, materiali vari, colore ecc...) lavorando per deduzione, basandosi sull'esperienza passata, immaginando una strada possibile. un'altra artista può vagare nella sincronicità, aspettando (?) l'epifania, arrendendosi con sottomissione alla volontà del fuori. quali siano le strade da percorrere per me è tutto un mistero. 

è davvero interessante come (magik?) le letture intersechino pensieri non formalizzati (nel passato): sto affrontando, devo dire con piacere e non estrema difficoltà, la lettura di "contro il metodo" di Feyeraben (un tizio che sembra pure simpatico a guardarlo su google). Ho da sempre sostenuto che la cieca fede nel metodo scientifico fosse quanto meno criticabile. Vedere concretizzarsi questa idea nella mente di persone altre da me, con tra l'altro dovizia di complesse argomentazioni, non fa che piacere. 
Lungi dall'essere un anarchico "politico" (estremismo, malattia infantile del comunismo), F. tratteggia i fondamenti di un'epistemologia anarchica, indicando i gravi limiti "irrazionali" del metodo scientifico analizzato sotto la luce (perfettamente legittima e sottovalutata in malissima fede) della storia. Quelli che io ho chiamato "sistemi minori" (se confrontati con il sistema maggiore, chiaro), per F. sono delle alternative valide che l'epistemologo anarchico può trovarsi nella posizione di dover, o voler, difendere, indipendentemente dal peso schiacciante della teoria (o episteme) dominante. 
L'esempio fondamentale che F. introduce e argomenta nel corso del libro è quello di galileo e della teoria copernicana, in contrapposizione all'episteme fino ad allora imperante dell'eliocentrismo. Emergono degli aspetti fondanti lo spostamento epistemico che pochissimo hanno a che fare con il metodo e l'esperimento in sé e moltissimo con aspetti storici, culturali, psicologici, propagandistici. Anzi, si arriva alla strana situazione paradossale per la quale l'aver (implicitamente, inconsciamente, a posteriori) accettato l'irrazionalità a sfavore di un rigido metodo scientifico sperimentale ha permesso lo sviluppo delle teoria galileiane e, di conseguenza, la scienza come la conosciamo oggi (newton e post-newton). Ma non solo, le stesse dinamiche "irrazionali" verificatesi nel rinascimento si ripresentano intatte durante il 900 e di conseguenza, anche ora. Per dinamiche "irrazionali" intendiamo: 
- preferenze politiche che favoriscono programmi di ricerca piuttosto che altri (e qui f. fa un bellissimo esempio con la medicina tradizionale cinese e la sua "a tavolino" messa al bando e successiva ripresa in diverse fasi del regime comunista; 
- preferenze economiche (e quindi politiche) che favoriscono programmi di ricerca piuttosto che altri; 
- e a seguire, ma sempre relazionate con le prime due, dinamiche psicologiche e sociali, persino intimidatorie nei confronti di scienziate e ricercatrici, così come mediche, utenza ecc...

insomma se si accetta di usare la storia come metro di giudizio della scienza, non limitandosi a rintanarsi nella "purezza" del metodo (e soprattutto nella sua presunta immanenza e astoricità) si scopre che accettare tutti i metodi senza favorirne nessuno, oppure criticarli tutti di fatto non fa grande differenza. padroni di niente, servi di nessuno. 

a cosa ci serve tutto questo? 
- non ne ho mai parlato in questa sede ma ho intrapreso da un paio d'anni un percorso di formazione in agopuntura. La medicina tradizionale cinese è letteralmente ciò di cui parla f., un sistema metodologico alternativo, incommensurabile rispetto al metodo scientifico e di difficile discussione con pari (soprattutto mediche) che provengano da una esclusiva formazione occidentale. grazie a "contro il metodo" ho un'arma argomentativa (senza fare la guerra ovviamente) notevole e autorevole; 
- stessa cosa vale per l'arte anche se ci spostiamo in territori leggermente più scivolosi: anche in questo ambito esistono dei metodi, degli epistemi, dei puristi e degli anarchici. l'approccio di f. ci aiuta ad avvicinarci in maniera umile, critica e aperta alle varie manifestazioni del processo creativo. in particolare ci aiuta anche a scovare le dinamiche socio-economico-storiche nascoste dietro ad un apparentemente innocuo sistema di "produzione" musicale, utilizzando una metodologia anarchica e scettica. Oltre al "semplice" "disvelare le dinamiche" dietro a processi creativi apparentemente astorici e neutri, f. ci aiuta ad agire con schemi anarchici e cortocircuiti semantici in grado di fornire alternative (parziali per ora) agli ormai inevitabili percorsi, appunto, "produttivi". Il fatto che la creazione musicale (sorvolando sul significato dei termini "creazione" e "musica") venga oggi largamente definita "produzione musicale" e che quindi l'oggetto finale del processo sia un "prodotto" è emblematico. f., nel suo saggio, spesso tocca la questione economica in relazione alla ricerca scientifica anche se (in parte giustamente) non le dedica mai, per dire, un capitolo intero. a costo di ripetermi: è inutile considerare l'arte un ambito asettico, astorico e apolitico semplicemente come meccanismo di difesa nei confronti del reale. invece di nascondere la testa sotto la sabbia e credere che l'ennesimo video promozionale di yuotube sull'ultimo modulo o sull'ultima drum machine sia una vetrina per dimostrare le capacità creative dell'oggetto, cerchiamo di scavare cunicoli e labirinti di feedback dentro il cubo della realtà. 

uno dei possibili grimaldelli per scardinare porte e collegare fra loro ingressi e uscite potrebbe essere 

la
RESIGNIFICAZIONE
il
RICOLLOCAMENTO SEMANTICO
il 
RICOLLOCAMENTO FUNZIONALE

perché? sono tutti e tre concetti inventati, mutuati o utilizzati contestualmente ad una pratica artistica ben specifica. Partiamo dalla seconda per spiegare i primi. 
la pratica artistica alla quale mi riferisco è il no-input mixing. autoesplicativo nel senso che si tratta di collegare un mixer, uno strumento nato e cresciuto con uno specifico scopo, con sé stesso (le uscite in loop all'interno di canali di ingresso) con lo scopo di ottenere suono. il tipo di suono poi varia in base all'equalizzazione, al guadagno, al pan e così via. lo spettro sonoro evocabile è ampio e affascinante, può essere (e spesso è) un muro di suono impenetrabile così come un delicato ticchettio pseudo-ritmico. può essere usato da solo oppure fuso assieme a strumenti non toccati dal processo di resignificazione (compressori, effetti, gate ecc...) ma non per questo inficianti il contesto generale di cortocircuito: anche la liminalità, lo spazio grigio fra ortodossia produttiva e ricollocamento semantico è interessante: come funziona un compressore (che sta facendo proprio il compressore, non un'altra cosa) quando si interfaccia con qualcosa di alieno, sottoposto ad una modifica sostanziale della sua funzione e della sua "ontologia"? si forma un costrutto potremmo dire cyborg, fusione di vari elementi che originano la propria natura dalla relazione che intrattengono con gli altri. Si sta delineando un ecosistema di feedback. ll mixer non è più un mixer ma diventa un po' synth, un po' compressore, un po' gate. Il compressore non è solo un compressore ma è anche un po' mixer, un po' generatore di suono e così via. non c'è inizio e non c'è fine proprio perché ci immergiamo in un sistema compatto, non quantizzabile, continuo e in cui i bordi fra un'entità e l'altra diventano progressivamente più sfumati. 
questo significa, per riallacciarci a f., che avremo bisogno di nuove ontologie e nuovi metodi per poter accedere al sistema che abbiamo creato. o forse no. la comprensione non è obbligatoria, non dobbiamo per forza generare una nuova ontologia per poter spiegare un fenomeno, non dobbiamo forzatamente creare modelli organizzativi e di senso per poter accettare un fenomeno (in questo caso) sonoro. 
ma è pur sempre vero che, da un punto di vista politico, la capacità di spiegare un fenomeno, di dargli un nome e poterlo indicare produce degli effetti positivi come: 
- identificazione e sopravvivenza: è quello che succede con la frammentazione del genere come pratica identificativa e di sopravvivenza;
- azione: indicare significa riconoscere e riconoscere significa agire, modificare; 
in un mondo utopico queste due necessità non sarebbero utili, potremmo farne a meno, ma siccome ci troviamo ancora in un spazio (appunto) liminale, fra utopia e realtà, per poter agire, per poter creare percorsi di cortocircuito, dobbiamo inevitabilmente riconoscere gli elementi per poter collegarli fra di loro. 
definita questa necessità ontologica, come possiamo agire? il concetto di cyborg è mutuabile in questo caso? haraway è molto cauta con l'utilizzo selvaggio della terminologia da lei creata (e lo sarei anche io se avessi creato una cosa del genere con così tanto dettaglio) ma di fatto un approccio basato sulle affinità e non sulle differenze, una visione liminale dei processi e degli oggetti dell'arte mi sembrano appropriati in questo caso. non solo ma anche un approccio femminista alle dinamiche tardo-capitalstiche di produzione culturale ci potrebbe aiutare, un approccio il più possibile intersezionale, affine ed incluso, che critichi lo schema produttivo dominante è, per quanto mi riguarda, nel contesto moderno in cui sia immersi, inevitabilmente femminista. anche il feedback, il cortocircuito si ritrova in larga misura nella lettura femminista post-umana, nelle pratiche di demedicalizzazione, nel bio-hacking ecc... nell'esperienza metamorfica di paul b. preciado traspaiono chiaramente gli stessi processi di ricollocamento semantico che abbiamo descritto con un mixer, solo applicati alla terapia ormonale, ai confini ontologici del genere e alle pratiche di determinazione diagnostico-terapeutica del sesso biologico. 

PERO

queste affinità, lo riconosco, vengono trovate perché applichiamo uno schema di pensiero paranoide, nel quale si cerca di connettere più punti possibili sulla mappa creando un'ontologia autoriferita e coerente. sappiamo bene che questo sistema è fallimentare perché un vero modello epistemologico è in grado di sostenersi anche tralasciando dei punti. nonostante questa doverosa precisazione è innegabile che avendo intrapreso una certa strada politica e di pensiero (mi sembra palese), le affinità fra concetti e pensatori, importanti entrambi per chi scrive, emergano spontaneamente. 

fatta questa doverosa premessa la mia posizione rimane invariata: la creazione musicale è aperto territorio di battaglia per spingere i limiti dell'intersezionalità e del femminismo post-umanista verso nuovi stimolanti lidi. le pratiche di resignificazione tecnico-musicale possono essere rilette in chiave transfemminista e cyborg. 
per rimanere in tema di pensiero paranoide potremmo comunque cedere su alcuni punti: non dobbiamo inevitabilmente includere tutto all'interno di un macro-cosmo transfemminista. non sarebbe nemmeno corretto e scadremmo forse in sussunzioni non richieste. il tema della riproducibilità e della proprietà intellettuale è, per esempio, qualcosa che non spontaneamente correla con le tematiche transfemministe. il punto però, come già detto, non è collegare tutti i punti senza lasciarne fuori nessuno ma utilizzare la visione critica femminista per problematicizzare le dinamiche di produzione musicale contemporanee. 

post redatto parzialmente sotto la illuminante guida di

martedì 12 ottobre 2021

SGGSTN


Ma sarà poi suggestioni, al plurale, oppure suggestione, al singolare? Poco importa. Il tema è comunque quello. 

Facciamo un rapido inserto pubblicitario: Io, in quanto "artista" sonoro, faccio parte ed ho fatto parte di una serie di progetti dalla longevità e complessità più o meno importante. Attualmente, alla già lunga lista, se ne è aggiunto uno ulteriore: "Udinelettronica", collettivo di artist* friulan* (I per ora e questo è un tema che sicuramente bisognerà affrontare prima o poi) dediti alla musica elettronica che, da fine agosto ad ora, sta cercando di smuovere un po' le acque, organizzando eventi live (uno per ora) e pubblicando performances filmate sul proprio canale YouTube. Potete facilmente seguire il tutto sulle pagine socials (tipo questa). 

Il concetto principale è che, nella mia (parlerò di me esclusivamente) sensibilità, il suono non è il solo contenuto dell'atto e della riflessione. Il suono produce delle reazioni a catena che conducono ad un pensiero ma contemporaneamente è anche la fine delle stesse, in un circuito di feedback in cui la musica è solo uno degli elementi.  
Interrogarsi su ogni attore dell'ecologia è fondamentale a mio avviso. Fermare lo sguardo solo alle (comunque infinite) caratteristiche timbriche/melodiche/ritmiche ecc..., nonché tecniche, della musica che si "produce" rischia di scollare l'artista da tutto ciò che lo circonda. Il contesto non è solo musicale, non è solo composto dall'ascoltatore e delle pavloviane dinamiche di gradimento e gratificazione ma è un fitta rete (anche) socio-politica che ha a che fare con il ruolo dell'individuo, la scelta, la consapevolezza ecc... ecc... dico socio-politico ma potrei dire anche etico o altro in relazione al posizionarsi dell'artista in un dato momento e spazio. 

Non è un ragionamento sulle singole suggestioni ma, in generale, sul processo di riflessione trasversale che la musica dovrebbe evocare. Gli ultimi post ruotano tutti un po' attorno al discorso dell'ecologia come sistema cognitivo per approcciarci ai problemi. Il "sistema" musica è perfetto secondo me perché evoca potenzialmente delle relazioni trasversali sotterranee (verrebbe da dire rizomatiche e propriamente anche, ma non voglio usare questo termine), carsiche, che scompaiono alla vista per riemergere in territori apparentemente estranei o liminali. Emblematico il caso dell'architettura e dell'urbanistica che, come fa notare LaBelle negli unici suoi due saggi che ho letto, stringono delle relazioni fortissime con l'acustica, addirittura di natura politico-repressivo. Per non parlare dell'architettura dell'abitare e dello spazio architettonico in relazione allo spazio sonoro. O ancora le mappe sonore o le diverse caratteristiche dell'ambiente acustico in relazione all'urbanistica sociale (tema incredibile che potete trovare su Acoustic Territories: Sound Culture and Everyday Life di LaBelle o sempre nel suo Background Noise: Perspectives on Sound Art). Già la consapevolezza dell'esistenza di questo tipo di relazioni dovrebbe far sorgere delle domande e delle suggestioni nella mente dell'artista: ciò che faccio è veramente limitato al mondo tecnico/acustico? Ha delle ulteriori implicazioni? Quali sono le condizioni ecologiche che permettono al sistema "artista" di esistere in relazione agli altri? Come impatta tutto questo sulla musica che creo? O sul suono che creo?
Esiste un sistema di feedback che, penetrando dall'esterno, consapevole o meno, dalle dinamiche della realtà attorno all'artista, altera e contemporaneamente risponde al suono che genero. Lo percepisco? Lo accetto? 
Che esista è innegabile. Che sia percepibile è già un discorso diverso. Soprattutto nella musica elettronica (ma qui entra un forte BIAS di "gruppo" diciamo, essendo io a contatto principalmente con un certo tipo di comunità. Accettiamo il BIAS e cerchiamo di avere comunque un approccio asettico) esistono molteplici discorsi tecnico-estetici ma pochi extra-musicali o almeno non più. La musica elettronica è tecnica nel senso che si basa su di un sapere squisitamente tecnologico-emancipatorio-commerciale. Non è necessario conoscere tecnicamente lo strumento per usarlo. La tecnologia libera potenzialmente l'artista dalla gabbia della conoscenza tecnico-pratica (e culturale) musicale sostituendola con una alle volte non altrettanto complessa (ma alle volte sì), conoscenza tecnologia del singolo strumento, della singola drum machine ecc... Non è detto, ripeto, che l'abilità nel suonare uno strumento tradizionale sia superiore o inferiore rispetto alla conoscenza di ableton o di una drum machine. Quello che cambia è il discorso socio-culturale che si sviluppa attorno alla musica "suonata" e alla musica elettronica. Non approfondiremo il primo ma, per quanto riguarda il secondo, ha avuto una parabola affascinante (emancipazione, accessibilità, sperimentazione, accelerazione rave-futurista, declino, uniformazione, diluizione della spinta, ricorsività ecc...) ma è, appunto, una parabola. Quello che è percepibile ora è che tutte le fascinazioni iniziali si siano ridotte ad un spinta all'accessibilità economica, un'illusione di potere, anche direi derivato da dinamiche di violenza patriarcale capitalista, e, inevitabilmente, una diluzione progressiva della corsa al futuro. Accanto a questo assistiamo a un'assenza pressoché totale di meta-discorso e proliferazione di un tecno-discorso di matrice capitalista appunto. In ambito accademico probabilmente rimane la volontà di interrogarsi sull'ecologie meta-musicali ma sinceramente trovo un po' deprimente che la realtà extra-accademica non si riappropri di questo tipo di immaginario.

Ma quando dico tutte queste stronzate incomprensibili, a cosa mi sto realmente riferendo? Facciamo due esempi tratti da suggestioni nate da recenti letture (semplificate): 
- scena Rave '90 inglese (londinese nello specifico): coadiuvata da tonnellate di droga, la musica elettronica fine 80, totalità di anni 90, ha dato origine ad un fenomeno culturale veramente complesso, in cui certo esisteva un oggetto centrale (spaccarsi a merda e ballare della musica mai sentita prima) ma da cui partivano innumerevoli assi sociali (la multiculturalità), urbanistici (l'architettura del club, le sonorità mappate grazie alla presenza di radio pirata che, a causa della chiusura per motivi legali ma anche solo la vicinanza o distanza dall'emittente fisico, potevano essere ascoltate solo in un determinato tempo/spazio), "politici" (l'occupazione, la riappropriazione dei luoghi, l'abitare comune ecc...). La meta-consapevolezza del movimenti rispetto a queste tematica è opinabile ma la loro presenza anche come oggetto di studio da parte di sociologi e musicologi no. 
- Afrofuturismo: forse uno dei miei esempi preferiti. Molto calzante in questo post. La riappropriazione, da parte della vessata minoranza afroamericana, letteralmente dell'idea di un futuro passato "profetico" ha dell'incredibile. Una cosa che la cultura e musica occidentale è riuscita a fare solo con l'accelerazione rave del post-umano cyber, tentativo comunque aiutato dalla multiculturalità e, come detto, già sbiadito. La forza dell'Afrofuturismo, come molti movimenti similari, è ondulante e sta avendo in questo periodo un rinnovato vigore, grazie anche da artisti come asdlmavkòlrmv o mm,mm,m,mm,,, (quest'ultimi meno elettronici e più jazzy ma va bene uguale, è la vibe che ci interessa evocare). E nonostante l'inizio del movimento sia abbastanza lontano nel tempo, devo dire che, almeno su di me, mantiene intatto tutto il suo fascino. Anche qui le implicazioni meta-musicali (con un grado di consapevolezza maggiore rispetto alla scena Rave) sono spaventose tanto potenti e urgenti. 
- Immaginario Queer-post-umanista e new musica elettronica ecc...: potremmo vederla come una virtuosa prosecuzione del discorso post-umano cyborg della cultura Rave (di fatto molte sotto-culture LGBTecc... si imbricano facilmente con l'ambiente psicoattivo post-rave). Non ne so molto musicalmente ma da un punto di vista socio-musicale l'appropriazione è notevole e le tematiche Queer emergono spesso in primo piano. Molto similmente all'Afrofuturismo, la minoranza si appropria senza difficoltà di un immaginario (spesso) con chiare connotazioni accelerazioniste e post-. Ben venga, sempre però, e vale anche per l'Afrofuturismo, con un occhio puntato al pericolo dell'assimilazione capitalista delle tematiche, operazione che viene fatta sottilmente anche attraverso il discorso tecno-emancipatorio che dicevamo prima. Affrontando in sintesi un discorso complesso: quando si usano i mezzi del capitalismo per cercare di combattere logiche strutturali, i mezzi usati non sono mai puri, neutri, apolitici e atecnologici, sono infettati dal capitale che quindi germinerà all'interno del movimento ritornando come appropriazione inversa. Quello che accade con pink-green-porcodio-washing ovviamente. In questo caso la speranza di emanciparsi attraverso la tecnologia musicale, accelerandola e pensandola come mezzo puro, tecno-post-umano è affascinante e condivisibile ma, contemporaneamente, naive perché la tecnologia è frutto del progresso capitalista, dal quale non potrà mai essere separata. E infatti nell'atto di appropriarsene, non riusciamo a separare le logiche di mercato, che ritornano prepotenti riappropriandosi delle sonorità, limitando il discorso emancipatorio ad un fatto commerciale e di monetizzazione degli ascolti, relegando la cultura Rave in specifici spazi istituzionalizzati e legalizzati ecc... l'elenco potrebbe andare avanti all'infinito. Non dimentichiamoci che capitale e controllo-istituzionalizzazione corrono in parallelo. 

Questi tre sono esempi emblematici del meta-discorso che si sviluppa attorno e a-partire-da la musica. O il suono a seconda di come lo vogliate vedere. Perché quindi non viene quasi mai affrontato? Ancora più emblematica l'assenza di tematiche di genere all'interno del meta-discorso musicale, come se l'iper-tecnologizzazione della musica elettronica fosse già di per sé gender-neutral (cosa ovviamente non vera) oppure che ascoltare il post-rave queer fosse un alibi sufficiente per non dover interrogarsi su alcune cose, legittimando la logica eteropatriarcale in assenza di presa di posizione. 
Uno dei punti chiave è proprio quello appena descritto, secondo me: c'è in generale uno scarico di responsabilità basato sula tecnologia. Il discorso non si approfondisce mai, e non solo su queste tematiche socio-politiche ma in generale sul meta-discorso musica, proprio perché la tecnologizzazione della musica elettronica viene vista come neutrale. "La tecnologia non è buona o cattiva, è l'utilizzo che se ne fa". Niente è neutrale, come detto il percorso che porta allo sviluppo di un elemento è impresso all'intero dell'elemento stesso, impossibile da separare, modellerà anche ciò che con quell'elemento viene prodotto e il discorso che si sviluppa nel suo intorno. Ben venga l'accesso illimitato a strumenti che fino a 10aa fa erano appannaggio di una ristretta elité di ricchi, ma non stupiamoci se poi questo porta ad appiattimento della (anche qui supposta) qualità e all'inasprirsi di logiche di consumo, che si portano poi dietro tutti gli scarti del capitalismo eteropatriarcale (disparità di genere, aggressività, prevaricazione ecc...). Il punto non è rendere gli strumenti nuovamente inaccessibili ovviamente, ma mantenere l'accessibilità cambiando le problematiche strutturali che l'accessibilità comporta. Ma qui entriamo in tutt'altro capitolo e non abbiamo né tempo né voglia di affrontarlo. 

Quindi la motivazione sembrerebbe essere l'alibi universalmente accettato secondo il quale interessarmi solo alla macchina come entità avulsa dal contesto e dalle implicazioni extra-tecnologiche mi metta al riparo da tutto ciò che attorno all'atto artistico (?) si trova. Mi sembra un buon punto di partenza. 
Staccandosi un attimo dal pippone totale di prima, diciamo anche che non si tratta solo di un problema socio-politico e cazzi e mazzi. Il discorso può essere anche affrontato da una prospettiva come quella adottata in questo blog. Chiaro, implicazioni politiche ci sono sempre, che lo vogliamo o meno, però non è che sia necessario partire a razzo e martellarsi i coglioni con cose pesanti immediatamente. Si può, per esempio, interrogarsi sulla propria filosofia performativa, sulle sensazioni extra-musicali, magari di contesto o di comunità, che questa musica implica. Per quanto riguarda il collettivo, giusto per fare un esempio tangibile, quali sono gli attori e i movimenti "umani" che ruotano attorno ad una performance dal vivo e quali quelli che si manifestano durante una premiere YouTube. Come cambia la fruizione? Quali sono le implicazioni sociali e di ascolto? E così via. Un esempio calzante potrebbe essere: durante l'evento live del collettivo (durante il sound-check per l'esattezza) i vicini si sono palesati per lamentarsi. La loro rimostranza era legata principalmente al rumore dei vetri che tremavano a causa delle basse frequenze. Ma le basse frequenze sono una caratteristica fondamentale di un qualunque live set, in particolare di alcuni tipi di musica elettronica. Le due cose sono inconciliabili ma il fatto che la musica possa impattare così tanto negativamente sull'esperienza di un'altra persona può essere fonte di riflessione. Diventa una sorta di controllo punitivo, un'invasione repressiva che rompe i confini della privacy domestica e lo fa, letteralmente, nemmeno con un suono puro, semioticamente riconoscibile, come per esempio la sirena di un'ambulanza, ma con una singola frequenza che il tecnico può arbitrariamente decidere se aumentare o eliminare.  

Torniamo sulla carreggiata iniziare del post, cerchiamo di tirare un po' le fila. L'argomento erano (e lo sono tutt'ora) le suggestioni che l'atto sonoro, sia esso musica, suono, performance, disco ecc..., evoca. L'idea per questo post è nata principalmente dal fatto che mi trovo più spesso a seguire il meta-discorso musica, attraverso letture e riflessioni, che non a suonare. Si tratta del mio personale modo di intendere l'ecologia sonora di cui faccio parte, è chiaro. Il desiderio di generare dei suoni nasce certo da idee di sound design che possono apparire "spontaneamente" dentro la mia testa ma spesso è legato a ragionamenti extramusicali. La stereofonia, per esempio, non è un orpello estetico ma è la decodifica delle implicazioni spaziali ed architettoniche sulla musica che, nello spazio di un locale fisico o nello spazio virtuale di YouTube, assume ripercussioni esperienziali completamente diverse. Un conto è seguire il suono nello spazio tridimensionale della realtà, un conto è subire la stereofonia con le cuffie o con un impianto nell'ambiente domestico (oppure azzerare le possibilità del tutto con lo speaker del telefono o del computer). 
Oppure ancora: l'idea di inserire di usare del Field Recording come materiale sonoro può essere intesa sia su un piano puramente estetico, sia soffermandosi sull'origine del Field Recording stesso e su cosa esso rappresenti, oltre su come lo spazio sonoro originali penetri e si modelli attorno al suono della composizione stessa. 
In sintesi, esistono moltissimi livelli di significato che accompagnano l'evento o l'atto musicale, sta a ciascuno scavare (se di scavare si tratta ma dipende da come la si vede) o meno. Per quanto mi riguarda, e lo dico come self-reminder, cerco di scavare sempre oltre la tecnica o la macchina, per far emergere, per portare alla luce, ungrounding (sempre Negarestani) le dinamiche e i processi ecologici carsici, a prescindere dalla manifestazione visibile anche lontana dall'origine.