Ma sarà poi suggestioni, al plurale, oppure suggestione, al singolare? Poco importa. Il tema è comunque quello.
Facciamo un rapido inserto pubblicitario: Io, in quanto "artista" sonoro, faccio parte ed ho fatto parte di una serie di progetti dalla longevità e complessità più o meno importante. Attualmente, alla già lunga lista, se ne è aggiunto uno ulteriore: "Udinelettronica", collettivo di artist* friulan* (I per ora e questo è un tema che sicuramente bisognerà affrontare prima o poi) dediti alla musica elettronica che, da fine agosto ad ora, sta cercando di smuovere un po' le acque, organizzando eventi live (uno per ora) e pubblicando performances filmate sul proprio canale YouTube. Potete facilmente seguire il tutto sulle pagine socials (tipo questa).
Il concetto principale è che, nella mia (parlerò di me esclusivamente) sensibilità, il suono non è il solo contenuto dell'atto e della riflessione. Il suono produce delle reazioni a catena che conducono ad un pensiero ma contemporaneamente è anche la fine delle stesse, in un circuito di feedback in cui la musica è solo uno degli elementi.
Interrogarsi su ogni attore dell'ecologia è fondamentale a mio avviso. Fermare lo sguardo solo alle (comunque infinite) caratteristiche timbriche/melodiche/ritmiche ecc..., nonché tecniche, della musica che si "produce" rischia di scollare l'artista da tutto ciò che lo circonda. Il contesto non è solo musicale, non è solo composto dall'ascoltatore e delle pavloviane dinamiche di gradimento e gratificazione ma è un fitta rete (anche) socio-politica che ha a che fare con il ruolo dell'individuo, la scelta, la consapevolezza ecc... ecc... dico socio-politico ma potrei dire anche etico o altro in relazione al posizionarsi dell'artista in un dato momento e spazio.
Non è un ragionamento sulle singole suggestioni ma, in generale, sul processo di riflessione trasversale che la musica dovrebbe evocare. Gli ultimi post ruotano tutti un po' attorno al discorso dell'ecologia come sistema cognitivo per approcciarci ai problemi. Il "sistema" musica è perfetto secondo me perché evoca potenzialmente delle relazioni trasversali sotterranee (verrebbe da dire rizomatiche e propriamente anche, ma non voglio usare questo termine), carsiche, che scompaiono alla vista per riemergere in territori apparentemente estranei o liminali. Emblematico il caso dell'architettura e dell'urbanistica che, come fa notare LaBelle negli unici suoi due saggi che ho letto, stringono delle relazioni fortissime con l'acustica, addirittura di natura politico-repressivo. Per non parlare dell'architettura dell'abitare e dello spazio architettonico in relazione allo spazio sonoro. O ancora le mappe sonore o le diverse caratteristiche dell'ambiente acustico in relazione all'urbanistica sociale (tema incredibile che potete trovare su Acoustic Territories: Sound Culture and Everyday Life di LaBelle o sempre nel suo Background Noise: Perspectives on Sound Art). Già la consapevolezza dell'esistenza di questo tipo di relazioni dovrebbe far sorgere delle domande e delle suggestioni nella mente dell'artista: ciò che faccio è veramente limitato al mondo tecnico/acustico? Ha delle ulteriori implicazioni? Quali sono le condizioni ecologiche che permettono al sistema "artista" di esistere in relazione agli altri? Come impatta tutto questo sulla musica che creo? O sul suono che creo?
Esiste un sistema di feedback che, penetrando dall'esterno, consapevole o meno, dalle dinamiche della realtà attorno all'artista, altera e contemporaneamente risponde al suono che genero. Lo percepisco? Lo accetto?
Che esista è innegabile. Che sia percepibile è già un discorso diverso. Soprattutto nella musica elettronica (ma qui entra un forte BIAS di "gruppo" diciamo, essendo io a contatto principalmente con un certo tipo di comunità. Accettiamo il BIAS e cerchiamo di avere comunque un approccio asettico) esistono molteplici discorsi tecnico-estetici ma pochi extra-musicali o almeno non più. La musica elettronica è tecnica nel senso che si basa su di un sapere squisitamente tecnologico-emancipatorio-commerciale. Non è necessario conoscere tecnicamente lo strumento per usarlo. La tecnologia libera potenzialmente l'artista dalla gabbia della conoscenza tecnico-pratica (e culturale) musicale sostituendola con una alle volte non altrettanto complessa (ma alle volte sì), conoscenza tecnologia del singolo strumento, della singola drum machine ecc... Non è detto, ripeto, che l'abilità nel suonare uno strumento tradizionale sia superiore o inferiore rispetto alla conoscenza di ableton o di una drum machine. Quello che cambia è il discorso socio-culturale che si sviluppa attorno alla musica "suonata" e alla musica elettronica. Non approfondiremo il primo ma, per quanto riguarda il secondo, ha avuto una parabola affascinante (emancipazione, accessibilità, sperimentazione, accelerazione rave-futurista, declino, uniformazione, diluizione della spinta, ricorsività ecc...) ma è, appunto, una parabola. Quello che è percepibile ora è che tutte le fascinazioni iniziali si siano ridotte ad un spinta all'accessibilità economica, un'illusione di potere, anche direi derivato da dinamiche di violenza patriarcale capitalista, e, inevitabilmente, una diluzione progressiva della corsa al futuro. Accanto a questo assistiamo a un'assenza pressoché totale di meta-discorso e proliferazione di un tecno-discorso di matrice capitalista appunto. In ambito accademico probabilmente rimane la volontà di interrogarsi sull'ecologie meta-musicali ma sinceramente trovo un po' deprimente che la realtà extra-accademica non si riappropri di questo tipo di immaginario.
Ma quando dico tutte queste stronzate incomprensibili, a cosa mi sto realmente riferendo? Facciamo due esempi tratti da suggestioni nate da recenti letture (semplificate):
- scena Rave '90 inglese (londinese nello specifico): coadiuvata da tonnellate di droga, la musica elettronica fine 80, totalità di anni 90, ha dato origine ad un fenomeno culturale veramente complesso, in cui certo esisteva un oggetto centrale (spaccarsi a merda e ballare della musica mai sentita prima) ma da cui partivano innumerevoli assi sociali (la multiculturalità), urbanistici (l'architettura del club, le sonorità mappate grazie alla presenza di radio pirata che, a causa della chiusura per motivi legali ma anche solo la vicinanza o distanza dall'emittente fisico, potevano essere ascoltate solo in un determinato tempo/spazio), "politici" (l'occupazione, la riappropriazione dei luoghi, l'abitare comune ecc...). La meta-consapevolezza del movimenti rispetto a queste tematica è opinabile ma la loro presenza anche come oggetto di studio da parte di sociologi e musicologi no.
- Afrofuturismo: forse uno dei miei esempi preferiti. Molto calzante in questo post. La riappropriazione, da parte della vessata minoranza afroamericana, letteralmente dell'idea di un futuro passato "profetico" ha dell'incredibile. Una cosa che la cultura e musica occidentale è riuscita a fare solo con l'accelerazione rave del post-umano cyber, tentativo comunque aiutato dalla multiculturalità e, come detto, già sbiadito. La forza dell'Afrofuturismo, come molti movimenti similari, è ondulante e sta avendo in questo periodo un rinnovato vigore, grazie anche da artisti come asdlmavkòlrmv o mm,mm,m,mm,,, (quest'ultimi meno elettronici e più jazzy ma va bene uguale, è la vibe che ci interessa evocare). E nonostante l'inizio del movimento sia abbastanza lontano nel tempo, devo dire che, almeno su di me, mantiene intatto tutto il suo fascino. Anche qui le implicazioni meta-musicali (con un grado di consapevolezza maggiore rispetto alla scena Rave) sono spaventose tanto potenti e urgenti.
- Immaginario Queer-post-umanista e new musica elettronica ecc...: potremmo vederla come una virtuosa prosecuzione del discorso post-umano cyborg della cultura Rave (di fatto molte sotto-culture LGBTecc... si imbricano facilmente con l'ambiente psicoattivo post-rave). Non ne so molto musicalmente ma da un punto di vista socio-musicale l'appropriazione è notevole e le tematiche Queer emergono spesso in primo piano. Molto similmente all'Afrofuturismo, la minoranza si appropria senza difficoltà di un immaginario (spesso) con chiare connotazioni accelerazioniste e post-. Ben venga, sempre però, e vale anche per l'Afrofuturismo, con un occhio puntato al pericolo dell'assimilazione capitalista delle tematiche, operazione che viene fatta sottilmente anche attraverso il discorso tecno-emancipatorio che dicevamo prima. Affrontando in sintesi un discorso complesso: quando si usano i mezzi del capitalismo per cercare di combattere logiche strutturali, i mezzi usati non sono mai puri, neutri, apolitici e atecnologici, sono infettati dal capitale che quindi germinerà all'interno del movimento ritornando come appropriazione inversa. Quello che accade con pink-green-porcodio-washing ovviamente. In questo caso la speranza di emanciparsi attraverso la tecnologia musicale, accelerandola e pensandola come mezzo puro, tecno-post-umano è affascinante e condivisibile ma, contemporaneamente, naive perché la tecnologia è frutto del progresso capitalista, dal quale non potrà mai essere separata. E infatti nell'atto di appropriarsene, non riusciamo a separare le logiche di mercato, che ritornano prepotenti riappropriandosi delle sonorità, limitando il discorso emancipatorio ad un fatto commerciale e di monetizzazione degli ascolti, relegando la cultura Rave in specifici spazi istituzionalizzati e legalizzati ecc... l'elenco potrebbe andare avanti all'infinito. Non dimentichiamoci che capitale e controllo-istituzionalizzazione corrono in parallelo.
Questi tre sono esempi emblematici del meta-discorso che si sviluppa attorno e a-partire-da la musica. O il suono a seconda di come lo vogliate vedere. Perché quindi non viene quasi mai affrontato? Ancora più emblematica l'assenza di tematiche di genere all'interno del meta-discorso musicale, come se l'iper-tecnologizzazione della musica elettronica fosse già di per sé gender-neutral (cosa ovviamente non vera) oppure che ascoltare il post-rave queer fosse un alibi sufficiente per non dover interrogarsi su alcune cose, legittimando la logica eteropatriarcale in assenza di presa di posizione.
Uno dei punti chiave è proprio quello appena descritto, secondo me: c'è in generale uno scarico di responsabilità basato sula tecnologia. Il discorso non si approfondisce mai, e non solo su queste tematiche socio-politiche ma in generale sul meta-discorso musica, proprio perché la tecnologizzazione della musica elettronica viene vista come neutrale. "La tecnologia non è buona o cattiva, è l'utilizzo che se ne fa". Niente è neutrale, come detto il percorso che porta allo sviluppo di un elemento è impresso all'intero dell'elemento stesso, impossibile da separare, modellerà anche ciò che con quell'elemento viene prodotto e il discorso che si sviluppa nel suo intorno. Ben venga l'accesso illimitato a strumenti che fino a 10aa fa erano appannaggio di una ristretta elité di ricchi, ma non stupiamoci se poi questo porta ad appiattimento della (anche qui supposta) qualità e all'inasprirsi di logiche di consumo, che si portano poi dietro tutti gli scarti del capitalismo eteropatriarcale (disparità di genere, aggressività, prevaricazione ecc...). Il punto non è rendere gli strumenti nuovamente inaccessibili ovviamente, ma mantenere l'accessibilità cambiando le problematiche strutturali che l'accessibilità comporta. Ma qui entriamo in tutt'altro capitolo e non abbiamo né tempo né voglia di affrontarlo.
Quindi la motivazione sembrerebbe essere l'alibi universalmente accettato secondo il quale interessarmi solo alla macchina come entità avulsa dal contesto e dalle implicazioni extra-tecnologiche mi metta al riparo da tutto ciò che attorno all'atto artistico (?) si trova. Mi sembra un buon punto di partenza.
Staccandosi un attimo dal pippone totale di prima, diciamo anche che non si tratta solo di un problema socio-politico e cazzi e mazzi. Il discorso può essere anche affrontato da una prospettiva come quella adottata in questo blog. Chiaro, implicazioni politiche ci sono sempre, che lo vogliamo o meno, però non è che sia necessario partire a razzo e martellarsi i coglioni con cose pesanti immediatamente. Si può, per esempio, interrogarsi sulla propria filosofia performativa, sulle sensazioni extra-musicali, magari di contesto o di comunità, che questa musica implica. Per quanto riguarda il collettivo, giusto per fare un esempio tangibile, quali sono gli attori e i movimenti "umani" che ruotano attorno ad una performance dal vivo e quali quelli che si manifestano durante una premiere YouTube. Come cambia la fruizione? Quali sono le implicazioni sociali e di ascolto? E così via. Un esempio calzante potrebbe essere: durante l'evento live del collettivo (durante il sound-check per l'esattezza) i vicini si sono palesati per lamentarsi. La loro rimostranza era legata principalmente al rumore dei vetri che tremavano a causa delle basse frequenze. Ma le basse frequenze sono una caratteristica fondamentale di un qualunque live set, in particolare di alcuni tipi di musica elettronica. Le due cose sono inconciliabili ma il fatto che la musica possa impattare così tanto negativamente sull'esperienza di un'altra persona può essere fonte di riflessione. Diventa una sorta di controllo punitivo, un'invasione repressiva che rompe i confini della privacy domestica e lo fa, letteralmente, nemmeno con un suono puro, semioticamente riconoscibile, come per esempio la sirena di un'ambulanza, ma con una singola frequenza che il tecnico può arbitrariamente decidere se aumentare o eliminare.
Torniamo sulla carreggiata iniziare del post, cerchiamo di tirare un po' le fila. L'argomento erano (e lo sono tutt'ora) le suggestioni che l'atto sonoro, sia esso musica, suono, performance, disco ecc..., evoca. L'idea per questo post è nata principalmente dal fatto che mi trovo più spesso a seguire il meta-discorso musica, attraverso letture e riflessioni, che non a suonare. Si tratta del mio personale modo di intendere l'ecologia sonora di cui faccio parte, è chiaro. Il desiderio di generare dei suoni nasce certo da idee di sound design che possono apparire "spontaneamente" dentro la mia testa ma spesso è legato a ragionamenti extramusicali. La stereofonia, per esempio, non è un orpello estetico ma è la decodifica delle implicazioni spaziali ed architettoniche sulla musica che, nello spazio di un locale fisico o nello spazio virtuale di YouTube, assume ripercussioni esperienziali completamente diverse. Un conto è seguire il suono nello spazio tridimensionale della realtà, un conto è subire la stereofonia con le cuffie o con un impianto nell'ambiente domestico (oppure azzerare le possibilità del tutto con lo speaker del telefono o del computer).
Oppure ancora: l'idea di inserire di usare del Field Recording come materiale sonoro può essere intesa sia su un piano puramente estetico, sia soffermandosi sull'origine del Field Recording stesso e su cosa esso rappresenti, oltre su come lo spazio sonoro originali penetri e si modelli attorno al suono della composizione stessa.
In sintesi, esistono moltissimi livelli di significato che accompagnano l'evento o l'atto musicale, sta a ciascuno scavare (se di scavare si tratta ma dipende da come la si vede) o meno. Per quanto mi riguarda, e lo dico come self-reminder, cerco di scavare sempre oltre la tecnica o la macchina, per far emergere, per portare alla luce, ungrounding (sempre Negarestani) le dinamiche e i processi ecologici carsici, a prescindere dalla manifestazione visibile anche lontana dall'origine.
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