venerdì 10 ottobre 2025

ricollocarsi

       dai che ci ricollochiamo. 

con piacere torno su queste pagine a distanza di un lasso di tempo relativamente breve. il post precedente è frutto di un "lavoro" di riscoperta di questo blog, lo si può notare leggendolo. vivendo ancora sull'onda di questo entusiasmo ritrovato, e soprattutto di due settimane di quelle che volgarmente vengono chiamate "ferie", mi appresto a scrivere ancora due righe. nel recente passato mi sono interrogato sul concetto dell'involuzione e anche del sopracitato "ricollocamento". due processi, quelli del ricollocamento e dell'involuzione, che vanno di pari passo nella mia personale visione delle cose. involvere è anche sapersi ricollocare. e per ricollocare non intendo una virtù dell'uomo (ci tengo a sottolineare "UOMO") del tardo capitalismo. se così fosse sarei arrivato al capolinea. intendo la capacità di uno "stare" attento. l'atto dello stare in maniera concentrata, ricettiva, ovvero di una consapevolezza passiva. l'attività è un processo interessante ma sopravvalutato. e per inattività non intendo, musicalmente parlando, "lasciar lavorare le macchine" beandosi del risultato autogenerativo. quello è un abbaglio di ricezione, un abbaglio di passività. è la nostra estetica che si proietta sulla "macchina", siamo noi che ne investiamo i circuiti spacciandoci poi per guru meditativi dell'ambient. esattamente come l'invasione dell'AI nel campo artistico. sono abbagli, scambiamo e sovrapponiamo la nostra volontà estetica con quella della macchina, pensando che ciò che viene generato 

1. Dare vita a un essere della stessa specie, detto di uomini, di animali, e per estens. anche di piante: Abramo generò Isacco; il destrier ... Ch’una giumenta generò d’un grifo (Ariosto); il seme da cui sarà generato l’albero. Anche assol.: uomo, animale impotente a generare

(beh che dire una bella stabbata questa definizione della Treccani) venga generato dal nulla cosmico assoluto e come tale, per la sua natura di generato, sia degno di attenzione estetica. che può andare bene ma allora, come sempre, sarebbe bene separare processo da prodotto. attore da scenografia ecc... invece ci affrettiamo a mischiare tutto, spappolarlo per bene e poi cercare di delinearne i contorni, con effetti spesso, per usare un eufemismo, buffi. un nuovo sistema di "creazione" richiede un nuovo sistema di coordinate ontologiche, semantiche, linguistiche. eppure ci ostiniamo a usare lemmi vecchi per libri scritti in una lingua sconosciuta. va bene, si può fare, ma il risultato sarà al massimo incomprensibile. al minimo orrendo. 

ricollocarsi in tutto questo significa collocarsi in maniera ricettiva e dialettica. creando nuove ontologie per sistemi abituali. ne abbiamo parlato tante e tante volte su queste pagine virtuali. pensiamo alla scrittura creativa di CTRL-C-V: un libro illuminante che parla dei cortocircuiti creativi, in letteratura, ai quali possiamo accedere con l'utilizzo della tecnologica. quel libro parla di futuro, di futuro vero. quando lo leggi percepisci il tempo nella sua interezza che è una cosa che non succede così spesso ormai, se non nelle visioni apocalittiche del presente-futuro (ma anche lì sembra sempre che sia visioni apocalittiche del presente-passato, come un eterno ritorno doom).  
e in musica? abbiamo qualcosa di simile? boh sì e no direi. c'è una serpeggiante hauntology, termine che io davvero disprezzo quando usata in maniera positiva, che permea molte delle attività musicali che si possono ritrovare in questo nuovo millennio. per deformazione professionale potrei dire che l'improvvisazione radicale, per definizione non idiomatica, dovrebbe trascendere tempo e spazio ma, per quanto questa cosa sia vera, nella sua pratica possiamo al massimo iper-esperire il presente ma non avere uno squarcio sul futuro. il che è un peccato. ma pensandoci è un semi-peccato perché stiamo comunque navigando in una pozzanghera con margini ben definiti. uscire dai margini è un problema perché la pozzanghera è tutto il nostro mare. forse va anche bene così, forse il trucco non è uscire ma sapersi, per l'appunto, ricollocare, posizionandosi sulle stesse sedie ma con forse e corpi diversi. 


ne approfitto per condividere questo piccolo manuale tascabile di suoni. l'idea di ritratto sonoro, miniatura sonora, non è una cosa nuova in assoluto. lo è un po' per me. per me è una piacevole ricollocazione. usare una vecchia sedia con un corpo nuovo. saper concentrare e sintetizzare la narrazione. un po' esercizio di pratica "compositiva", un po' cornice estetica di per sé. liberarsi dalla lunghezza genera anche una piacevole sensazione di leggerezza. 
non solo. la forma, il contenitore, è quello che ci siamo detti. il contenuto invece è qualcosa di ancora più personale. tutto è incentrato sullo sforzo consapevole di confrontarmi con l'uso del delay, un effetto che mi genera, come il riverbero, sentimenti contrastanti e distanti fra loro. c'è sia un innegabile fascino, che una distanza dovuta al manierismo e all'utilizzo a-priori che ne viene fatto. ho già esplorato a lungo gli estremi e rovesci di un effetto come il delay, estremi e rovesci che caratterizzano il mio approccio alla musica ormai da parecchio tempo. mi interessava involvermi su di un utilizzo più "tradizionale" ma senza rinunciare al dinamismo. quello che succede nel piccolo album tascabile di cui sopra è quindi la scelta quasi consapevole di frammenti tratti da una registrazione lunga qualche minuti. il delay è stereofonico così come il materiale audio che gli viene fornito (derivato da registrazioni precedenti con un no-input mixer). tutto avviene all'interno di un synth modulare con una serie di elementi molto risicati. c'è il tema dell'ipercontrollo poiché tutto è centellinato, nulla esplode o devia da rigidi confini dinamici. come al solito non c'è alcun tipo di elaborazione post se non un'automatica normalizzazione di volume. 

vedete come ci si ricolloca anche nei confronti del proprio percorso passato? i contorni si sfumano o si fanno più definiti. ci si riposiziona. si re-significano cose che prima avevano un ruolo differente. per esempio il tema del controllo, della scelta, dell'atto compositivo. tempo fa aveva per me un significato. ora ne ha un altro. non c'è una gerarchia in questo perché posso immedesimarmi nel me stesso del passato che pensava cose diverse dal me stesso del presente, e capirlo, empatizzare. e viceversa. 
e ci si ricolloca anche nelle modalità narrative. come detto in altri post, un blog ti permette, con una crudeltà a volte impietosa, di far riaffiorare modalità narrative dei tuoi io passati. se leggete molte cose che ho avuto modo di scrivere in questa sede, e leggete questo o il precedente post, si nota una compressione del linguaggio secondo me, una normalizzazione, una compattazione degli estremi, anche emotivi, che traspaiono del racconto. i tempi dei si non sedes is, per dirla in altri termini, o del resoconto del live degli Zu, sono terminati da un pezzo. ci si è ricollocati. 
non tornerei mai indietro ovviamente, ma la consapevolezza del percorso è un po' come la consapevolezza di sé, del proprio corpo nella sua interezza. è una cosa molto gratificante, molto bella. e d'altra parte ci dà la dimensione di quanto esista la disconnessione prima della connessione. il che è emblematico. 

per aggiungere un tassello di me al racconto è significativo forse notare come io abbia, da poco più di un mese al momento in cui scrivo queste nuove righe, iniziato a meditare. il tema della meditazione è appropriato in questa sede perché, come il tema del colloquio e supporto psicologico/psicoterapico, ha subito in me un processo di notevole ricollocamento. ho sempre pensato (e lo penso in realtà tutt'ora) che la meditazione occidentale (e la mindfullness in particolare) fosse una trappola tardo-capitalista avente come unico scopo la colpevolizzazione dell'errore sociale (non essere in grado di, non essere abbastanza bravi a) oppure, nel caso della psicoterapia, l'allontanamento della difficoltà psichica dal campo del dibattito pubblico. come detto sopra continuo fortemente a sostenere queste cose: il sistema in cui viviamo è terrorizzato dalla mole di psicopatologia che sta producendo e per renderla innocua la relega nelle stanze private del terapeuta. stessa cosa la mindfullness che con un sottile meccanismo di responsabilizzazione (per quanto venga sempre affermato il contrario) fa ricadere il peso sociale sulla singola persona che, se soccombe, lo fa per una mancanza di pratica o una mancanza di concentrazione. 

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e ripresa. al momento della stesura di queste nuove righe (al 17.08.25) sono passati molti mesi da quando ho cominciato a meditare e da quando, in maniera direi abbastanza contemporanea, ho cominciato un percorso di psicoterapia. queste due nuove, inattese per il mio me passato, variabili, hanno contribuito ad una svolta direi epocale nelle mie modalità di esperienza della vita. 
in realtà come sappiamo non è tanto la modalità a cambiare quanto la consapevolezza della modalità stessa, la presenza e l'occhio osservatore che, distanziandosi, genera una nuova visione prospettica delle cose e delle esperienze. 
mi piacerebbe fare qualche riflessione su questi due temi, ora che ne sento un po' l'urgenza, approfittando della spinta del voler scrivere (per niente scontata come sappiamo). 
sono sicuro che, una volta aperto le paratie, il tema della psicoterapia e della meditazione sarà qualcosa di ricorrente su queste pagine ma, senza voler anticipare i tempi, cerchiamo qui di tracciare i margini di questa grande nuova cosa con uno stile da quasi-flusso-di-coscienza

per prima cosa vorrei soffermarmi sulla motivazione che sottende entrambe le scelte, meditazione e psicoterapia. sono stati percorsi che ho deciso di intraprendere per motivazioni principalmente professionali, ben consapevole (ma non del tutto all'inizio) di quanto anche la sfera personale ne avrebbe tratto gran beneficio oltre che entrare e farsi entrare dall'ambito professionale. è interessante come per molti anni io non abbia avuto né la necessità né la voglia di specificare la mia professione su queste pagine virtuali e come ora, di fatto per poter spiegare meglio un concetto, ne senta il desiderio. 
sono un medico palliativista, ancora in formazione specialistica ma dedito di fatto alle cure palliative in maniera professionalmente completa e totalizzante (nel senso che la mia attività lavorativa settimanale è dedicata solo a quello). non ho mai reputato ciò che faccio qualcosa di difficile, né emotivamente né professionalmente, altrimenti non starei qui a parlarne. la verità però è che certe esperienze lavorative fanno risuonare temi e aspetti personali che magari ci portiamo dentro da tempo. la risonanza può essere salvifica quando mi permette di migliorare il rapporto con le persone e può essere addirittura strumentale se utilizzandola riesco a raggiungere luoghi relazionali altrimenti preclusi. è però un'arma a doppio taglio perché richiede quella che ho imparato a chiamare "energia spirituale". lungi dall'essere qualcosa di esoterico tipo il mana, l'energia spirituale è ciò che usiamo durante tutti i processi di comunicazione e presenza consapevole ed empatica con le persone/pazienti. è la nostra linfa che ci permette di assorbire ed accogliere sofferenze sia fisiche, sia legate a processi molto comuni nell'ambito delle cure palliative quali la perdita di senso e il disgregamento della traiettoria biologica e biografica, eventi che, come è facile immaginare, possono essere devastanti. ciò che ho provato personalmente è che essere esposti a tutto questo senza un circolo di protezione fatto da energia spirituale e dai rituali e strumenti per poterla recuperare, può essere molto provante sia sul piano fisico che su quello emotivo. quando erodiamo la corazza spirituale e di senso che ci circonda, sono questi infatti i domini del sé che vengono subito dopo. banalmente l'effetto professionale che otteniamo è una disaffezione fino al burnout (uno dei meccanismi che lo producono, non l'unico). non mi sono accordo spontaneamente di questa cosa ma mi è stata fatta notare dalla psico-oncologa che ci supervisionava in uno dei servizi di CP che ho frequentato nell'ultimo anno. alla fine del mio periodo di tirocinio le ho quindi chiesto se avesse qualche suggerimento per intraprendere un percorso di psicoterapia con qualche sua collega dell'ambito. dico dell'ambito perché parlare un linguaggio comune ed essere comunemente consapevoli del contesto lavorativo in cui mi trovo (e trovavo) era una condizione ineludibile per la scelta della professionista. il suggerimento che ho ottenuto è stato, per usare un eufemismo, provvidenziale, perché la comunione di linguaggio, intento e visione della realtà che ho potuto trovare con la persona che ora è la psicoterapeuta che mi accompagna in questo percorso è davvero impressionante e salvifico. 
riflettendoci, anche recentemente, e confrontandomi con amiche e persone a me care che hanno intrapreso e intraprendono (anche da parecchio tempo prima di me) percorsi di psicoterapia, è indubbio che la mia scelta non è legata a un malessere psicologico o esistenziale specifico. è piuttosto, sopratutto ora in realtà, legata al tema della curiosità, interesse personale nel discutere di determinate tematiche con una persona amica e formata per farlo. amica è un termine potente ma è anche un termine reale. non ho alcun dubbio sulla validità del rapporto che lega me alla psicoterapeuta e le stanze della terapie sono uno spazio realmente sicuro. la sensazione di sentirsi al sicuro è una sensazione, per me, liberatoria, come sentirsi sollevati da un peso o da un giudizio.

riguardo al tema del sentirsi sollevati bisogna fare una precisazione importante. la professionista della mente dalla quale, da diversi mesi ormai, vado, segue un approccio costruttivista alla psicoterapia. uno dei miei timori, motivo poi della reticenza ad iniziare un percorso del genere, era il sentirsi oggetto di interpretazione. l'interpretazione come pratica degli approcci psicodinamici e psicoanalitici. più proseguo nella realtà che è diventata la mia vita, e più ho la sensazione che l'interpretazione sia vissuta da me come una trappola. sapere e credere che le mie azioni e i miei comportamenti siano legati e condotti da qualche misterico trauma infantile non mi aiuterebbe, la conoscenza di questo nodo non lo farebbe sparire. non solo, non gli darei valore tanto quanto do alla fenomenologia diretta della mia vita, all'esperienza tangibile e di senso. è una strada, l'ho intrapresa. e il sentire che questa paura dell'interpretazione viene sollevata da chi ha la competenza per farlo stabilisce il legame e lo salda in maniera potente. 

è un momento, questo che gravita attorno al 10.10.25, data in cui scrivo queste righe, per me pregno di avvenimenti e di spinta. è il momento inteso come forze che definisco la traiettoria nella spinta circolare, preparandosi al lancio forse? o forse no. non è neanche tanto importante il risultato o l'obiettivo, è l'entusiasmo, la dinamica, la sensazione e consapevolezza del movimento. tante cose si muovono e tanti pezzi che credevo persi o troppo strani per potersi incastrare, si stanno pian piano avvicinando in forme anche inattese. mi vengono in mente le care metafore del terreno fertile e del giardino interiore. ho una piccola sensazione, racchiusa nel profondo, dentro di me. un fiore nasce, ne vedo l'esile stelo.