venerdì 10 ottobre 2025

ricollocarsi

       dai che ci ricollochiamo. 

con piacere torno su queste pagine a distanza di un lasso di tempo relativamente breve. il post precedente è frutto di un "lavoro" di riscoperta di questo blog, lo si può notare leggendolo. vivendo ancora sull'onda di questo entusiasmo ritrovato, e soprattutto di due settimane di quelle che volgarmente vengono chiamate "ferie", mi appresto a scrivere ancora due righe. nel recente passato mi sono interrogato sul concetto dell'involuzione e anche del sopracitato "ricollocamento". due processi, quelli del ricollocamento e dell'involuzione, che vanno di pari passo nella mia personale visione delle cose. involvere è anche sapersi ricollocare. e per ricollocare non intendo una virtù dell'uomo (ci tengo a sottolineare "UOMO") del tardo capitalismo. se così fosse sarei arrivato al capolinea. intendo la capacità di uno "stare" attento. l'atto dello stare in maniera concentrata, ricettiva, ovvero di una consapevolezza passiva. l'attività è un processo interessante ma sopravvalutato. e per inattività non intendo, musicalmente parlando, "lasciar lavorare le macchine" beandosi del risultato autogenerativo. quello è un abbaglio di ricezione, un abbaglio di passività. è la nostra estetica che si proietta sulla "macchina", siamo noi che ne investiamo i circuiti spacciandoci poi per guru meditativi dell'ambient. esattamente come l'invasione dell'AI nel campo artistico. sono abbagli, scambiamo e sovrapponiamo la nostra volontà estetica con quella della macchina, pensando che ciò che viene generato 

1. Dare vita a un essere della stessa specie, detto di uomini, di animali, e per estens. anche di piante: Abramo generò Isacco; il destrier ... Ch’una giumenta generò d’un grifo (Ariosto); il seme da cui sarà generato l’albero. Anche assol.: uomo, animale impotente a generare

(beh che dire una bella stabbata questa definizione della Treccani) venga generato dal nulla cosmico assoluto e come tale, per la sua natura di generato, sia degno di attenzione estetica. che può andare bene ma allora, come sempre, sarebbe bene separare processo da prodotto. attore da scenografia ecc... invece ci affrettiamo a mischiare tutto, spappolarlo per bene e poi cercare di delinearne i contorni, con effetti spesso, per usare un eufemismo, buffi. un nuovo sistema di "creazione" richiede un nuovo sistema di coordinate ontologiche, semantiche, linguistiche. eppure ci ostiniamo a usare lemmi vecchi per libri scritti in una lingua sconosciuta. va bene, si può fare, ma il risultato sarà al massimo incomprensibile. al minimo orrendo. 

ricollocarsi in tutto questo significa collocarsi in maniera ricettiva e dialettica. creando nuove ontologie per sistemi abituali. ne abbiamo parlato tante e tante volte su queste pagine virtuali. pensiamo alla scrittura creativa di CTRL-C-V: un libro illuminante che parla dei cortocircuiti creativi, in letteratura, ai quali possiamo accedere con l'utilizzo della tecnologica. quel libro parla di futuro, di futuro vero. quando lo leggi percepisci il tempo nella sua interezza che è una cosa che non succede così spesso ormai, se non nelle visioni apocalittiche del presente-futuro (ma anche lì sembra sempre che sia visioni apocalittiche del presente-passato, come un eterno ritorno doom).  
e in musica? abbiamo qualcosa di simile? boh sì e no direi. c'è una serpeggiante hauntology, termine che io davvero disprezzo quando usata in maniera positiva, che permea molte delle attività musicali che si possono ritrovare in questo nuovo millennio. per deformazione professionale potrei dire che l'improvvisazione radicale, per definizione non idiomatica, dovrebbe trascendere tempo e spazio ma, per quanto questa cosa sia vera, nella sua pratica possiamo al massimo iper-esperire il presente ma non avere uno squarcio sul futuro. il che è un peccato. ma pensandoci è un semi-peccato perché stiamo comunque navigando in una pozzanghera con margini ben definiti. uscire dai margini è un problema perché la pozzanghera è tutto il nostro mare. forse va anche bene così, forse il trucco non è uscire ma sapersi, per l'appunto, ricollocare, posizionandosi sulle stesse sedie ma con forse e corpi diversi. 


ne approfitto per condividere questo piccolo manuale tascabile di suoni. l'idea di ritratto sonoro, miniatura sonora, non è una cosa nuova in assoluto. lo è un po' per me. per me è una piacevole ricollocazione. usare una vecchia sedia con un corpo nuovo. saper concentrare e sintetizzare la narrazione. un po' esercizio di pratica "compositiva", un po' cornice estetica di per sé. liberarsi dalla lunghezza genera anche una piacevole sensazione di leggerezza. 
non solo. la forma, il contenitore, è quello che ci siamo detti. il contenuto invece è qualcosa di ancora più personale. tutto è incentrato sullo sforzo consapevole di confrontarmi con l'uso del delay, un effetto che mi genera, come il riverbero, sentimenti contrastanti e distanti fra loro. c'è sia un innegabile fascino, che una distanza dovuta al manierismo e all'utilizzo a-priori che ne viene fatto. ho già esplorato a lungo gli estremi e rovesci di un effetto come il delay, estremi e rovesci che caratterizzano il mio approccio alla musica ormai da parecchio tempo. mi interessava involvermi su di un utilizzo più "tradizionale" ma senza rinunciare al dinamismo. quello che succede nel piccolo album tascabile di cui sopra è quindi la scelta quasi consapevole di frammenti tratti da una registrazione lunga qualche minuti. il delay è stereofonico così come il materiale audio che gli viene fornito (derivato da registrazioni precedenti con un no-input mixer). tutto avviene all'interno di un synth modulare con una serie di elementi molto risicati. c'è il tema dell'ipercontrollo poiché tutto è centellinato, nulla esplode o devia da rigidi confini dinamici. come al solito non c'è alcun tipo di elaborazione post se non un'automatica normalizzazione di volume. 

vedete come ci si ricolloca anche nei confronti del proprio percorso passato? i contorni si sfumano o si fanno più definiti. ci si riposiziona. si re-significano cose che prima avevano un ruolo differente. per esempio il tema del controllo, della scelta, dell'atto compositivo. tempo fa aveva per me un significato. ora ne ha un altro. non c'è una gerarchia in questo perché posso immedesimarmi nel me stesso del passato che pensava cose diverse dal me stesso del presente, e capirlo, empatizzare. e viceversa. 
e ci si ricolloca anche nelle modalità narrative. come detto in altri post, un blog ti permette, con una crudeltà a volte impietosa, di far riaffiorare modalità narrative dei tuoi io passati. se leggete molte cose che ho avuto modo di scrivere in questa sede, e leggete questo o il precedente post, si nota una compressione del linguaggio secondo me, una normalizzazione, una compattazione degli estremi, anche emotivi, che traspaiono del racconto. i tempi dei si non sedes is, per dirla in altri termini, o del resoconto del live degli Zu, sono terminati da un pezzo. ci si è ricollocati. 
non tornerei mai indietro ovviamente, ma la consapevolezza del percorso è un po' come la consapevolezza di sé, del proprio corpo nella sua interezza. è una cosa molto gratificante, molto bella. e d'altra parte ci dà la dimensione di quanto esista la disconnessione prima della connessione. il che è emblematico. 

per aggiungere un tassello di me al racconto è significativo forse notare come io abbia, da poco più di un mese al momento in cui scrivo queste nuove righe, iniziato a meditare. il tema della meditazione è appropriato in questa sede perché, come il tema del colloquio e supporto psicologico/psicoterapico, ha subito in me un processo di notevole ricollocamento. ho sempre pensato (e lo penso in realtà tutt'ora) che la meditazione occidentale (e la mindfullness in particolare) fosse una trappola tardo-capitalista avente come unico scopo la colpevolizzazione dell'errore sociale (non essere in grado di, non essere abbastanza bravi a) oppure, nel caso della psicoterapia, l'allontanamento della difficoltà psichica dal campo del dibattito pubblico. come detto sopra continuo fortemente a sostenere queste cose: il sistema in cui viviamo è terrorizzato dalla mole di psicopatologia che sta producendo e per renderla innocua la relega nelle stanze private del terapeuta. stessa cosa la mindfullness che con un sottile meccanismo di responsabilizzazione (per quanto venga sempre affermato il contrario) fa ricadere il peso sociale sulla singola persona che, se soccombe, lo fa per una mancanza di pratica o una mancanza di concentrazione. 

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e ripresa. al momento della stesura di queste nuove righe (al 17.08.25) sono passati molti mesi da quando ho cominciato a meditare e da quando, in maniera direi abbastanza contemporanea, ho cominciato un percorso di psicoterapia. queste due nuove, inattese per il mio me passato, variabili, hanno contribuito ad una svolta direi epocale nelle mie modalità di esperienza della vita. 
in realtà come sappiamo non è tanto la modalità a cambiare quanto la consapevolezza della modalità stessa, la presenza e l'occhio osservatore che, distanziandosi, genera una nuova visione prospettica delle cose e delle esperienze. 
mi piacerebbe fare qualche riflessione su questi due temi, ora che ne sento un po' l'urgenza, approfittando della spinta del voler scrivere (per niente scontata come sappiamo). 
sono sicuro che, una volta aperto le paratie, il tema della psicoterapia e della meditazione sarà qualcosa di ricorrente su queste pagine ma, senza voler anticipare i tempi, cerchiamo qui di tracciare i margini di questa grande nuova cosa con uno stile da quasi-flusso-di-coscienza

per prima cosa vorrei soffermarmi sulla motivazione che sottende entrambe le scelte, meditazione e psicoterapia. sono stati percorsi che ho deciso di intraprendere per motivazioni principalmente professionali, ben consapevole (ma non del tutto all'inizio) di quanto anche la sfera personale ne avrebbe tratto gran beneficio oltre che entrare e farsi entrare dall'ambito professionale. è interessante come per molti anni io non abbia avuto né la necessità né la voglia di specificare la mia professione su queste pagine virtuali e come ora, di fatto per poter spiegare meglio un concetto, ne senta il desiderio. 
sono un medico palliativista, ancora in formazione specialistica ma dedito di fatto alle cure palliative in maniera professionalmente completa e totalizzante (nel senso che la mia attività lavorativa settimanale è dedicata solo a quello). non ho mai reputato ciò che faccio qualcosa di difficile, né emotivamente né professionalmente, altrimenti non starei qui a parlarne. la verità però è che certe esperienze lavorative fanno risuonare temi e aspetti personali che magari ci portiamo dentro da tempo. la risonanza può essere salvifica quando mi permette di migliorare il rapporto con le persone e può essere addirittura strumentale se utilizzandola riesco a raggiungere luoghi relazionali altrimenti preclusi. è però un'arma a doppio taglio perché richiede quella che ho imparato a chiamare "energia spirituale". lungi dall'essere qualcosa di esoterico tipo il mana, l'energia spirituale è ciò che usiamo durante tutti i processi di comunicazione e presenza consapevole ed empatica con le persone/pazienti. è la nostra linfa che ci permette di assorbire ed accogliere sofferenze sia fisiche, sia legate a processi molto comuni nell'ambito delle cure palliative quali la perdita di senso e il disgregamento della traiettoria biologica e biografica, eventi che, come è facile immaginare, possono essere devastanti. ciò che ho provato personalmente è che essere esposti a tutto questo senza un circolo di protezione fatto da energia spirituale e dai rituali e strumenti per poterla recuperare, può essere molto provante sia sul piano fisico che su quello emotivo. quando erodiamo la corazza spirituale e di senso che ci circonda, sono questi infatti i domini del sé che vengono subito dopo. banalmente l'effetto professionale che otteniamo è una disaffezione fino al burnout (uno dei meccanismi che lo producono, non l'unico). non mi sono accordo spontaneamente di questa cosa ma mi è stata fatta notare dalla psico-oncologa che ci supervisionava in uno dei servizi di CP che ho frequentato nell'ultimo anno. alla fine del mio periodo di tirocinio le ho quindi chiesto se avesse qualche suggerimento per intraprendere un percorso di psicoterapia con qualche sua collega dell'ambito. dico dell'ambito perché parlare un linguaggio comune ed essere comunemente consapevoli del contesto lavorativo in cui mi trovo (e trovavo) era una condizione ineludibile per la scelta della professionista. il suggerimento che ho ottenuto è stato, per usare un eufemismo, provvidenziale, perché la comunione di linguaggio, intento e visione della realtà che ho potuto trovare con la persona che ora è la psicoterapeuta che mi accompagna in questo percorso è davvero impressionante e salvifico. 
riflettendoci, anche recentemente, e confrontandomi con amiche e persone a me care che hanno intrapreso e intraprendono (anche da parecchio tempo prima di me) percorsi di psicoterapia, è indubbio che la mia scelta non è legata a un malessere psicologico o esistenziale specifico. è piuttosto, sopratutto ora in realtà, legata al tema della curiosità, interesse personale nel discutere di determinate tematiche con una persona amica e formata per farlo. amica è un termine potente ma è anche un termine reale. non ho alcun dubbio sulla validità del rapporto che lega me alla psicoterapeuta e le stanze della terapie sono uno spazio realmente sicuro. la sensazione di sentirsi al sicuro è una sensazione, per me, liberatoria, come sentirsi sollevati da un peso o da un giudizio.

riguardo al tema del sentirsi sollevati bisogna fare una precisazione importante. la professionista della mente dalla quale, da diversi mesi ormai, vado, segue un approccio costruttivista alla psicoterapia. uno dei miei timori, motivo poi della reticenza ad iniziare un percorso del genere, era il sentirsi oggetto di interpretazione. l'interpretazione come pratica degli approcci psicodinamici e psicoanalitici. più proseguo nella realtà che è diventata la mia vita, e più ho la sensazione che l'interpretazione sia vissuta da me come una trappola. sapere e credere che le mie azioni e i miei comportamenti siano legati e condotti da qualche misterico trauma infantile non mi aiuterebbe, la conoscenza di questo nodo non lo farebbe sparire. non solo, non gli darei valore tanto quanto do alla fenomenologia diretta della mia vita, all'esperienza tangibile e di senso. è una strada, l'ho intrapresa. e il sentire che questa paura dell'interpretazione viene sollevata da chi ha la competenza per farlo stabilisce il legame e lo salda in maniera potente. 

è un momento, questo che gravita attorno al 10.10.25, data in cui scrivo queste righe, per me pregno di avvenimenti e di spinta. è il momento inteso come forze che definisco la traiettoria nella spinta circolare, preparandosi al lancio forse? o forse no. non è neanche tanto importante il risultato o l'obiettivo, è l'entusiasmo, la dinamica, la sensazione e consapevolezza del movimento. tante cose si muovono e tanti pezzi che credevo persi o troppo strani per potersi incastrare, si stanno pian piano avvicinando in forme anche inattese. mi vengono in mente le care metafore del terreno fertile e del giardino interiore. ho una piccola sensazione, racchiusa nel profondo, dentro di me. un fiore nasce, ne vedo l'esile stelo. 

lunedì 7 aprile 2025

involuto




quanto tempo è passato.

quante volte rileggo e rileggo i post del passato e penso che vorrei tanto scriverne uno nuovo. la probabilità che succeda è praticamente zero. ma non del tutto. e queste righe ne sono una prova tangibile. ogni volta che attraverso questa serie di fasi (desiderio- rinuncia- desiderio- possibilità) scorrendo le pagine (e pagine) del blog, mi sorprendo di due cose, più o meno nell'ordine:
- quanto io scriva e abbia scritto solo ed esclusivamente per me stesso;
- quanta profondità personale io abbia raggiunto nel mio recente passato;
in particolare il secondo punto mi lascia ogni volta disorientato. c'è un incredibile passaggio sulla visione in scala di grigi avuta alla guida, in autostrada, in macchina con mia madre. se lasciamo perdere gli sbrodolamenti esistenzialisti sulla radura dell'essere, è un post di un candore disarmante. non credo che sarei in grado di scrivere una cosa del genere, adesso.

adesso. cosa c'è adesso?

il primo dei due punti mi fa oscillare. da un lato vorrei cedere alla tentazione di raccontare tutto, ma-tutto. alla fine se scrivo queste righe per me solo, non è che un diario quello che sto stilando. certo ci saranno fancy immagini e suonini di soundcloud ma un diario rimane, come il piccolo taccuino in cui mio padre si annota un evento significativo per ogni giornata (una parola, una corta frase "fabio laureato!"). come colloco tutto questo? è un tentativo di ricordare? o è un tentativo di non sparire? di riconoscersi guardando indietro. mi ripeto con ossessione che non tornerei mai indietro ai miei 17-24-27 anni, che quello che ho ora è meglio di ciò che avevo e di ciò che ho avuto. e probabilmente ho anche ragione. eppure la sezione del tempo-spazio, gli anelli concentrici del tronco della mia vita, se letti a posteriori in un improbabile salto cronologico sono impietosi. mi ricordano che ciò che ho vissuto ha raggiunto profondità abissali. o forse no. in fin dei conti è come voler guardare un solido da tutti i lati contemporaneamente, come voler ruotare la testa a destra e a sinistra allo stesso tempo. non si può. ottieni solo vertigine non euclidea. 

dall'altro lato preferisco tenere chiusi alcuni segreti nella piccola scatola del mio cuore, al sicuro, chiusa con un piccola chiave intangibile, finemente ornata. ci sono cose che dico a me stesso e sulle quali rifletto, storie di addii, di perdite, di abbandoni, di ritrovamenti, di arrivederci, di incontri vecchi e nuovi, pianti e risa. ma sono cose che riservo in modo esclusivo ad una comunicazione orale. oppure no? forse non tutto, forse un poco alla volta. dopotutto sto parlando ad un macchina, ad un diario di proporzioni cosmiche che scandaglia le superficiali profondità dei miei testi per propinarmele sottoforma di pubblicità targettizzata. e il dolore e la gioia non possono che essergli indifferenti. le potrà anche fagocitare e metabolizzare ma il risultato che poi mi proporrà sarà goffo, grottesco. in sintesi, anche se scrivessi le oscure avventure del dott. morte e dei suoi amici-pazienti (io) il sg. google non saprebbe che farsene. ma in una sorta di infantile pensiero magico, evocare nomi e aneddoti equivarrebbe per me a tradire quelle persone e quelle esperienze, persone ed esperienze che nemmeno ci sono più. non potrò mai fare una cosa del genere. 

quello che invece posso fare con relativa sicurezza è concentrarmi sul secondo punto (di due). mi trovo spesso, come già detto, a rileggere i miei vecchi post. ci sono delle notevoli chicche come la recensione dei Si Non Sedes Is (ahaha) o del live degli Zu (ahahah). ma oltre a questo c'è un filo conduttore che si snoda e si annoda nel corso degli anni. al traccia del divenire-scrittura, la modifica del mio approccio alla narrazione (perché di questa parliamo), nel corso degli anni (perché di questo parliamo). 
le recensioni iniziali mi evocano nostalgia e affetto più che curiosità. mi ricordano l'entusiasmo del racconto (ancora) e la velleità di essere letto o ascoltato. è pure successo a volte a giudicare dalle puntuali statistiche di blogspot. 
poi da lì c'è un'involuzione prima estetica poi contenutistica. le recensioni fanno spazio alle riflessioni. entra prepotente il tema dell'improvvisazione (come è giusto che sia), fanno un passo indietro gli ascolti. linguaggio, tematiche di genere, attivismo, politica, sono imbarcazioni cariche di possibili relazioni e dialoghi che vedo scorrere sulla linea dell'orizzonte. alcune spariscono o si inabissano, altre invece mettono l'ancora, costruiscono passerelle e piattaforme (anche) estrattive. 
c'è un blocco cronologico, le cui tracce si possono reperire sul blog con relativa facilità, in cui dominano i temi filosofici contemporanei delle mie letture di allora. quanto fascino Negarastani o lo Xenofemminismo. tutti concetti che mi porto ancora dentro, che mi rendono la persona che sono. sono contento di poter in qualche modo riscoprire il processo rivivendo un po' le tappe. 
emerge l'annosa domanda senza risposta: ma ho scritto io quelle cose? saprei riscriverle? e come prima la risposta non c'è, come guardare a destra e sinistra contemporaneamente. di sicuro non puoi farlo ma forse puoi leggerne il risultato immaginario, provare ad immedesimarti nella persona o cosa o entità che, per strani poteri cosmici, è in grado di farlo. vivere, crescere, modificarsi, forse è proprio questo. 

sono la somma di tutto questo, non c'è dubbio. anzi sono olistico, maggiore della somma delle parti. i fenomeni di apprendimento, contenuti, morale, etica, spiritualità ecc... non seguono delle regole algebriche. 

possiamo partire da qui forse

possiamo forse anche ri-partire, un po' come è avvenuto in molti post in cui millantavo un ritorno alla progettazione o un radicale cambio di rotta; cose che non sono mai avvenute. 
non parlo di ri-partire in questo blog, parlo di ri-partire in ciò che blog non è (tutto il resto) e magari esportarlo qui dentro o almeno raccontarne il processo. 

spesso parlo da solo, soprattutto in macchina ma anche a casa. non la vedo tanto (per ora) come un sinonimo di una psicopatologia, quanto un modo per mettere i pensieri in fila. credo ancora all'immenso potere taumaturgico e creativo della verbalizzazione. parlare a voce alta rende i miei pensieri concreti, attraverso la parola riesco a dare forma a ciò che penso e a ciò in cui credo, oltre che ad essere un ottimo esercizio retorico, una simulazione di scenari in cui potrei venirmi a trovare.  
uno degli recentissimi argomenti che ho discusso con me stesso è molto inerente all'argomento di oggi. è proprio l'involuzione estetica che ho vissuto nel corso degli anni. uso di proposito il termine involuzione giusto per non usare il termine evoluzione che mi sembra davvero pretenzioso, in generale, non solo quando lo uso io. oltre al semplice fatto che se osservo il mio percorso artistico da quando ho cominciato a suonare la chitarra classica non ci vedo nulla di evolutivo. ma soprattutto perché (e lo scopro nel mentre)

involuzione è: 

l’atto dell’involgersi, dell’avvolgersi cioè su sé stesso, del ripiegarsi e avvolgersi verso l’interno, e la condizione che ne è il risultato

mi pare più che appropriato. 
la condizione che ne è il risultato. di sicuro mi sono involto, avvolto su me stesso, ripiegato verso l'interno, sia letteralmente che metaforicamente. ho preferito la riflessione alla manifestazione, interrogandomi sul suono più che emetterlo. il valore del silenzio, le letture, la soundart, i concetti, l'improvvisazione, il dialogo sopra tutti questi temi. e ne è valsa la pena perché ho trovato una trasversalità anche negli altri ambiti della mia vita, partendo in particolare dalle pratiche improvvisative da un lato e il trans-femminismo dall'altro. da quel nucleo centrale di concetti di fatto teorici mi sono pian piano accorto che le modalità di approccio proprie di questi temi erano applicabili anche, per esempio, anche ad altri ambiti politici o all'ascolto o al modo con cui vediamo ed utilizziamo la tecnologia. o anche nell'ambito professionale, nel rapporto comunicativo ed emotivo con le persone. 
ma involuzione non è de-evoluzione, rimane progressione, avanzamento anche se in modo frattale e non lineare. rivoltarsi come un guanto. far sì che ciò che è dentro venga fuori e ciò che prima era fuori tappezzi il dentro. molto appropriato. come un sogno che ho fatto, in cui per uno strano patto con un famoso criminale mi trovavo ad essere letteralmente convoluto in uno strano cubo di carne e viscere composto da vari tasselli rotanti incastrati finemente fra loro, il cui movimento poteva essere azionato da meccanismi di budella e leve intrecciate. era il prezzo da pagare per? forse la vita di un'ignara persona da me amata? non ricordo. 
anche quello dei sogni è un tema ricorrente: il desiderio, mai del tutto appagato, di trascrivermi i sogni significativi, al risveglio. avevo cominciato a farlo utilizzando il tablet ma poi, come spesso mi accade, mi sono un po' perso. una pratica molto involuta, convoluta, di vero ripiegamento verso l'interno. 

ma eravamo partiti dall'involuzione estetica e artistica. recentemente ho messo le mani su un'amplificatore. una oggetto che non possedevo da anni. da quando suonavo in gruppi musicali. un oggetto che pensavo quasi di essermi lasciato alle spalle. ora invece troneggia in camera, con tanto di cassa. un Davoli maestoso da una potenza di fuoco devastante, con le sue bellissime valvole incandescenti. un oggetto magico. e approcciandosi con rispetto alla dinamica azione-reazione fra chitarra e ampli ho vissuto un'altra epifania dell'involuzione, il perdersi nel dettaglio armonico delle corde che vibrano, pure, senza necessità di distorcerle o deformarle. puramente analogico e immediato, gioco di volumi e feedback e oggetti incastrati fra le corde e mollette appese e cacciaviti. un mondo sonoro che si dischiude senza fatica e senza orpelli, diretto, non-mediato. è involuzione? cronologicamente potremmo anche dire di sì perché comunque stiamo parlando di un passo "tecnologicamente" indietro più che avanti. è involuzione anche dal punto di vista biografico perché rappresenta il "mio" personale passato. ma è soprattutto involuzione nel senso vero del termine: è un ripiegamento estetico su sé stesse, un guardarsi dentro riflessivo attraverso quasi la staticità degli armonici, la lentezza della riflessione, la concentrazione del momento. e anche, e forse in particolare, la scelta, l'agency, il ruolo riscoperto, e l'epifania nell'incontro con lo strumento che questo comporta. inginocchiarsi, con la chitarra orizzontale, le mollette appese sulle corde, il cacciavite infilato come una spada nella carne, e pizzicare debolmente, poi con più intensità, poi di nuovo debolmente, sprigionando quei battimenti che solo un amplificatore a un metro da te riesce ad esprimere e saturare così.
ritorno su queste righe a distanza di (non troppo) tempo. l'amplificatore è scomparso dalla camera, troppo potente, troppo poco spazio. quello che invece è rimasto nella camera delle meraviglie è il ripiegamento estetico di cui l'amplificatore ha rappresentato un po' l'incarnazione, per quanto temporanea. involuzione come processo di auto-riflessione. adesso che mi fermo e guardo indietro alle ultime settimane-mesi è talmente lampante e palese che mi lascia un leggero senso di vertigine. le cose stanno andando bene sotto molteplici punti vista, sia artisticamente che non. e ho come la sensazione che dipenda anche da questo fenomeno involutivo. l'involuzione crea compattezza e quest'ultima crea stabilità, quadra il cerchio. chiaro, il lato negativo è un po' un distanziamento dall'esterno ma penso che per ora possa anche andare bene così. 
tornando però all'estetica, l'amplificatore e la sua dinamica non-mediata ha tracciato con più dettaglio i confini di ciò che voglio venga contenuto nella mia personale idea di performance. rileggendo il blog ho trovato altri riferimenti a questo tema (come se fossero stati scritti da un'altra persona, e un po' è anche vero come abbiamo detto). il contenuto deve essere corporeo, materico, fisico, non-mediato. deve essere avvolto su sé stesso, ripiegato, folded, invaginato, in una sorta di auto-erotismo performativo. e una testata cassa, con il suo maestoso aspetto fallico, non può che sottolineare questo. 
la mia performance ideale è anche quanto più possibile non idiomatica e per idiomatico intendo "collegato ad un linguaggio codificato, un idioma, una struttura culturale". ma anche e forse soprattutto 

"In musica, stile i., concezione della scrittura musicale, divenuta comune dalla seconda metà del sec. 18°, in cui l’autore non scrive più, come in precedenza, un brano senza fissare una strumentazione vincolante e definitiva, ma tiene conto, nel comporre, delle specifiche caratteristiche timbriche, espressive e tecniche degli strumenti a cui il brano è destinato".

 anche l'improvvisazione radicale è legata ad un linguaggio codificato ma ontologicamente tende a discostarsene, o almeno dovrebbe. non è quindi il prodotto ma il processo. il prodotto è il processo. 
e poi dovrebbe essere il più possibile meta. dovrebbe quindi riguardare concetti ed oggetti che si riferisce alla musica dall'esterno. non dovrebbe limitarsi alla struttura come melodia o ritmo o armonia ma rimandare a concetti altri, meta-musicali. facile a dirsi ma impossibile da farsi. o meglio, estetica in quanto meta. come un'arte concettuale ma senza bisogno di una concettualizzazione a priori. che frase convoluta. 
proviamo a partire da qui. domenica p.v. quindi 6.4.25 suono. suono in solo, una cosa che contemporaneamente mi intriga e mi spaventa. l'intrigo è dovuto in parte all'indipendenza della perfomance e in parte alla necessità di cesellare finemente un'estetica propria, non mediata dal dialogo con l'altra. 
la paura è data dagli stessi elementi ma in negativo. l'assenza di mediazione è una responsabilità oltre che un dono, espone all'errore non mediato. ma è anche vero che errore è possibilità, è apertura e accoglimento. 
ad ogni modo per questa occasione di performance ho decido che il mio strumento sarà il no-input mixer "aumentato" da qualche scorciatoia informatica. nel processo mi sono accorto che le scorciatoie sono ridotte veramente all'osso e non così determinante nell'economia della performance. d'altra parte posso dare un livello estetico leggermente diverso, oltre a garantirmi la possibilità di registrare il tutto. ad oggi 1.4.25 sono globalmente soddisfatto dei risultati, ottenuti con una costante, anche se non impegnativa, pratica quotidiana. la parola che più mi viene in mente quando penso a quello che sta emergendo è 

controllo 3. fig. In sociologia, c. sociale, complesso apparato di norme, generalmente codificate (e più o meno interiorizzate da parte dei singoli), e di strumenti coercitivi, presente in ogni società (anche se diverso per ciascuna), finalizzato a identificare, prevenire, scoraggiare e punire quei comportamenti che sono considerati devianti rispetto ai valori della comunità, e quindi a permettere la riproduzione della società sulla base dei rapporti consolidati. 

riproduzione del comportamento. discostarsi dalla norma. cos'è la norma per un no-input mixer? l'idea che ne ha la comunità elettroacustica mondiale? e come viene rappresentata questa comunità? attraverso l'esteso corpus di materiale audio-video reperibile su youtube? e se questa norma non mi rappresenta? ma se non mi rappresenta, dove ho costruito il mio immaginario di cosa sia o non sia la norma per un no-input mixer? ho le mie fonti certo, ma con che criteri stabilisco che un preciso contorno estetico è il confine di ciò che reputo bello o brutto? solite domande senza risposta. forse questo processo è un meccanismo tettonico geologico, fenomeno che si sviluppa in anni, durante il corso della mia vita, e che si è sviluppato per secoli e millenni e si svilupperà per secoli e millenni prima e dopo di me. io ne sono rappresentate nel qui ed ora, ho raccolto il testimone, passerò il testimone. secondo questa visione l'estetica sarebbe un lascito, un processo ereditario culturale. quando mi imbatto in questi concetti mi viene sempre un po' di vertigine. 
a prescindere dal lascito però, io sono qui ed ora qui ed ora, quindi la mia competenza, volendo proprio soffermarsi su qualcosa, è circoscritta. poi chiaro, le azioni del presente determinano il futuro che retroagisce sul passato in convoluti modi che sappiamo. 

visto che oggi è il 07.04.25 e ieri sera ho suonato in solo con un no-input mixer adeguatamente preparato, in una performance semi-strutturata in un ambiente molto accogliente e famigliare, mi piacerebbe condividere alcune riflessioni sui temi del post.
- ieri in particolare, ma in questo periodo in generale direi, ho sentito la necessità di una struttura. una cornice di contenimento, di controllo, che mi imponga dei percorsi. dico questo perché la fretta tende a modificare performances pensate per essere lineari e quasi sequenziali, con le loro pause e i loro momenti, in qualcosa di molto più elastico e caotico. se in gruppo questa cosa è mitigata dalla relazione, in solo può essere impietoso. 
- l'imprevisto. legato al punto precedente, può sovvertire completamente una performance. ieri l'imprevisto si è verificato (una delle parti che avevo pensato in maniera semi-strutturata non è stata possibile per un mio errore tecnico di preparazione) e ho deviato il corso di come mi immaginavo tutto.
- in generale è stato un banco di prova comunque interessante, il punto di arrivo di alcune riflessioni estetiche che sono racchiuse anche in questo post. punto di arrivo ma anche tappa di un percorso. grazie a questo stimolo ho comunque approfondito e raggiunto livelli di controllo tecnico sullo strumento che, pensandoci, mi affascinano molto e sono parecchio avanzati rispetto al mio approccio precedente.

la carne al fuoco come sempre è tantissima. penso che il modo migliore per concludere sia tediarvi con due link che ben sintetizzano gli elementi estetici che ho portato ieri sera e che hanno caratterizzato queste ultime settimane di rapporto con il mio strumento






direi che ci vedremo nel
futuro