mercoledì 17 luglio 2019

01.06.2019


Oltre a condividere con voi queste piccole immagini che mi stanno molto a cuore (per gentile NON concessione fisica-ma-morale di Jesse Jacobs, opportunamente modificata), vorrei tornare sul tema dell'improvvisazione radicale, John Cage e i Social Networks, sempre vedendo il tutto in una chiave più personale possibile. Come sempre, la piacevole sensazione di intimità, mi avvolge nel momento stesso in cui comincio a scrivere in questo spazio e, come sempre, mi riprometto di tornarci con frequenza maggiore (ben sapendo che non succederà purtroppo). Dopo la felice parentesi monografica, che mi ha avvicinato di persona ad alcuni grandi personaggi della mia musica preferita, sento la necessità di ripiegarmi per poter analizzare meglio alcuni temi che si sono palesati in questi giorni/settimane/mesi e che, di fatto, ho approcciato in modo molto simile, meritando dunque un approfondimento quasi "tematico". 
Forse la volontà di iniziare questo post è nata da uno stimolo Social. Effettivamente meriterebbe uno screenshot o qualcosa del genere per poter argomentare in modo più dettagliato. 


Ok. Facciamo una doverosa premessa: io stesso storgo il naso e mi chiedo "che diavolo c'entra facebook con un blog che ha una, seppur minima, pretesa di serietà? Risposta retorica: nulla, ci mancherebbe. Il fatto è che, a prescindere da questa parentesi di basso livello, mi è capitato, anche recentemente, di intavolare discussioni virtuose all'interno di questi social anzi, mi piacerebbe rivoltare la domanda precedente e chiedere: quand'è che abbiamo decretato la fine del dialogo, sui social network? La risposta, per me, coincide con il declino di questo formato presente (il blog) e degli ancor più potenti forum. Le differenze sostanziali sono 1) la presenza di un moderatore/deux ex e 2) la macchinosità del sistema. Il 2) sempre paradossale ma in realtà la lentezza operativa di qualcosa permette all'utente di riflettere sul contributo che pensa di, così generosamente, offrire. Non dimentichiamoci che Facebook (o altri, è indifferente) è uno strumento che ha fatto della propria democrazia una gabbia dorata e nel quale la mole enorme di informazioni impedisce completamente il dialogo e abbassa la qualità di contenuti (opinabile). Vabbè, questa premessa serve solamente a dire che qualunque discussione su qualunque tema si cerchi di intavolare in un gruppo di 20000 persone (di questo stiamo di fatto parlando), la deriva (le derive) saranno inevitabili e che quindi non ha senso nemmeno tentare.
Ma veniamo ai temi che questo appassionato post, carico di livore e critica, ci offre. Chiariamo subito una cosa: l'autore del post si riferisce specificatamente a quella patina di egocentrismo e apparenza che avvolge tutti i video, pubblicati in quello specifico gruppo, di gente che suona le proprie macchine, costose o meno, e si autodefinisce sperimentatore. Il problema quindi non è "semantico", non si tratta di attaccarsi ad un termine ma di criticare lo spirito "social" con cui questo termine viene declinato. La pubblicazione genera un inferno di risposte: quasi nessuno coglie l'aperta e palese vena polemica ma più o meno tutti si sentono in diritto di dover dire la loro, quasi si sentissero chiamati in causa direttamente. Una delle derive di maggior successo è quella violentemente critica in cui l'autore viene tacciato di elitarismo, snobismo, porcodiismo ecc... Un'altra deriva è quella, tanto inevitabile quanto irritante, goliardica in cui il livello della conversazione viene azzerato completamente. C'è poi quella che difende a spada tratta la libertà di espressione, quella dotta e ricercata ma carica di superiorità quasi didattica e poi, sotto, il tentativo di intavolare una discussione concreta. Considerate che poi tutte queste si mischiano in maniera hybrida visto che i sostenitori di una possono rispondere liberamente ai commenti che riguardano altre (anche questa la tomba del dialogo, come è facile capire).
Sottolineiamolo ancora una volta e poi passiamo oltre: a meno di non trovarsi in un contesto social estremamente virtuoso (gruppo di piccole dimensioni, moderatore attento e attivo) e diminuendo il livello di livore iniziale (che però è scaturito dalle caratteristiche stesse del contesto, già viziate) una conversazione che produca informazione e risoluzione è impossibile. Fine, passiamo oltre.
Oltre dove? Voglio analizzare i motivi che mi hanno portato a rispondere al post e a interrogarmi sui temi in esami. Lo farò inserendo, per prima cosa, un'immagine fuori luogo.


Il primo tema è di natura semantica: "sperimentare". Un termine veramente vasto che ha acquisito, nel corso del tempo, le accezioni più disparate. Qui è inizialmente usato in modo inaccessibile, spostandolo fuori dalla portata di persone che "dovrebbero limitarsi alle loro ruminazioni e tentativi". Il messaggio è quindi quello che, se non si hanno delle solide basi di studio e non si conosce l'ipotesi da verificare, la parola "sperimentale" o "esperimento", bisognerebbe lasciarla da parte e optare per qualcosa di più umile, tipo "cazzeggio" o "passatempo". Ci sono però dei problemi, quando si tenta di leggere il commento sotto questa luce: quello più macroscopico è il fatto che la critica, come detto prima, è rivolta non tanto all'esperimento in sé, quanto al verosimile motivo con il quale l'esperimento è condotto, ovvero l'apparenza, l'egocentrismo, il mettersi in mostra. Queste caratteristiche dell'atto social deviano la critica e la fanno apparire elitaria o snob quando in realtà si riferiva a tutt'altro. Sta all'autore palesare le propri intenzioni ed è ovvio che, se non ci riesce, i commenti prenderanno le derive dette prima. In sintesi, se le tue intenzioni non sono perfettamente chiare e se parti già carico di tensione, gli effetti saranno lo specchio di quanto apportato (anche se è possibile rimediare, come sempre).
La mia critica però esula da questo, mette in secondo piano la forma, il contenitore, e si concentra sul reale concetto semantico di "esperimento". Potremmo vederlo in vari modi, ovviamente, anche nella sua accezione empirista ma sinceramente equiparare un atto artistico a un asettico ambiente di laboratorio (non) andava bene (nemmeno) nel secondo dopo guerra. Giusto per completezza:

esperiménto (ant. speriménto) s. m. [dal lat. experimentum, der. di experiri: v. esperire]. – 1. raro. L’atto, il fatto di esperire, di mettere in opera, di ricorrere a: decidere l’e. delle vie legali. 2. Più com., quanto si fa per provare, conoscere, dimostrare le qualità di una persona o di una cosa: fare e. della fede altrui; dare e. delle proprie capacità; tentare un e., fare una prova (di cosa di cui sia incerto l’esito); fare una cosa per e., in via di e., a titolo di prova; è stato un felice e., un e. riuscito. Poco com. con i sign. di saggio: dare e. di sé nel canto; o di prova d’esame, spec. scritto: sottoporre i candidati a un e. di versione. 3. Nel linguaggio scient., operazione o sequenza di operazioni con cui si intende riprodurre, simulare e determinare concettualmente un fenomeno, in modo che le sue condizioni siano note e riproducibili (di solito in laboratorio) e quindi la procedura sperimentale risulti ripetibile, al fine di corroborare o smentire un’ipotesi, per lo più sulla scorta di valutazioni quantitative: esperimenti di fisica, di chimica; un e. ad alta quota, a bassa temperatura; gli e. di Mendel; e. mentale, quello eseguito in una situazione immaginaria perché non ottenibile con i mezzi di cui si dispone, ma con parametri e grandezze rigorosamente definiti, per saggiare un principio o una legge scientifici in casi limite o in un nuovo contesto; per l’e. cruciale, v. experimentum crucis. Il termine è talvolta usato come sinon. di esperienza, soprattutto quando acquista il valore di prova di una teoria, di un principio, ecc. 4. In diritto, e. giudiziale, mezzo di prova a cui il giudice ricorre per accertare se un fatto sia o possa essere accaduto in un determinato modo: consiste nella riproduzione, per quanto è possibile, della situazione in cui si afferma o si ritiene essere avvenuto il fatto e nella ripetizione delle modalità di svolgimento del fatto stesso.

Copiare le definizioni lo so, è una cosa odiosa, ma in questo caso ci serve per argomentare successivi passaggi. Attenzione alla prima, che non avevo considerato: provare, conoscere, dimostrare le qualità di una persona o di una cosa. Interessante questa conoscenza, anche di un persona e delle sue qualità. Posso quindi anche sperimentare a prescindere dalle ipotesi iniziali. Posso conoscere le caratteristiche qualitative (è il nostro caso, se parliamo di arte) di qualcuno o di qualcosa anche senza degli elementi iniziali. La seconda è quella più conosciuta e si riferisce ad un campo prettamente scientifico. In questo caso è importante raccogliere dei dati iniziali su cui poi basare delle valutazioni successive, dimostrando o confutando un'ipotesi, posta a priori, e creando un modello che aiuti a spiegare situazioni successive. Come posso immaginare di adattare tutto questo ad un atto d'arte? Dopo aver tolto la scienza musicale, l'acustica, la musica concreta ecc... ben poco mi rimane. O meglio! Rimane tutta quella schiera di artisti e compositori che hanno adottato, sempre nel secondo dopoguerra, un approccio scientifico alla musica ma è proprio qui la differenza: la musica non diventa l'oggetto della speculazione empirica, ma è il metodo scientifico a prendere il posto di quello compositivo. Sono due cose sottilmente (e per questo largamente) differenti. L'obiettivo finale, ovvero (per stare molto larghi) l'emozione, il bello ecc... rimane inalterato ma viene accompagnato da un approccio sintetico, sistematico, classificativo ecc... La scienza, dentro la musica, entra sotto forma di esperimento qual'ora si vogliano valutare, attraverso dei dati misurabili e riproducibili, le caratteristiche del suono e dell'effetto che questo ha sull'ambiente. I due termini in grassetto sono decisamente cruciali per capire il discorso. Spingiamo tutto questo ancora un passetto avanti: se io progetto un'installazione sonora complessa, utilizzando le mie conoscenze meccaniche, la manovro con Max/Msp, utilizzando le mie competenze informatiche, e la rendo riproducibile in contesti ed ambienti diversi non sto facendo un esperimento, anche se i dati che utilizzo e le tecniche scientifico/filosofiche di cui mi avvalgo di fatto quello sono. Non lo sto facendo perché la finalità del mio operare non è definita dalla riproducibilità di quanto fatto, né tanto meno dal dimostrare o confutare un'ipotesi ma piuttosto dal messaggio che voglio trasmettere, dal contenuto musicale di quanto creo. Contenuto musicale è il più ambiguo dei termini però lasciamolo lì, non credo proprio che questo post arriverà a toccarlo. Infatti stiamo parlando di forma e contenitore, non di contenuto. Forse i passaggi tematici successivi andranno ad analizzare alcuni aspetti del contenuto ma, come vedremo, in un modo più trasversale.


Quindi? Finora abbiamo argomentato un po' la definizione di esperimento scientifico e l'abbiamo messa vicino (non vicinissimo) all'idea di atto artistico; è venuto fuori che sì, ok, figo ma non ci siamo del tutto: questa definizione di esperimento, sperimentale, sperimentare, non mi soddisfa di per sé e sicuramente non si adatta alla mia idea di arte o, più nello specifico, musica. Il che significa che, pur condividendo la posizione dell'autore del post per quanto riguarda l'astio verso le dinamiche social, non sono d'accordo con lui quando parla di "studio", "dati", "ipotesi", come detto in precedenza. Come risolviamo questa controversia? Potremmo utilizzare la definizione della Treccani che parla di "conoscere, provare, dimostrare le qualità ecc...". Non sarebbe neanche male se non fosse che noto una certa sfumatura di giudizio, la necessità di dover valutare o farsi valutare da qualcuno o qualcosa e questo mi sta un po' stretto.
La soluzione, l'unica, che ci rimane è trovare una nuova definizione di esperimento, che tenga conto di quanto detto fino ad ora. Esiste? Personalmente direi di sì ed ha anche una collocazione e una paternità ben precisa. Mi sono molto spesso interrogato su questi temi, anche stimolato dalle domande di ascoltatori che, giustamente per carità, chiedevano "Ma che musica suoni?". Una domanda devastante per qualunque musicista (?), domanda che tende a generare dubbi sull'identità artistica di una persona. Questa primavera ho avuto l'idea (casualmente virtuosa) di andarmi a cercare qualcosa scritto da questo benedetto John Cage. Perché ok, 4.33, le radio e i porchi dii ma volevo leggere, scorrere gli occhi su pagine stampate di parole partorite dalla sua di mente, non andare a caso seguendo le opinioni di terzi (o quarti). A posteriori lo consiglio a tutti, questo approccio: non fidatevi mai dell'opinione di terzi e sopratutto non basate discorsi e argomentazioni su queste opinioni. Per essere appropriate, è necessario che le basi del dialogo siano perfettamente vostre.
Torniamo a Cage: compositore, poeta, scrittore, filosofo, artista tridimensionale, esperto e appassionato di funghi (forse la cosa più importante). Operando prevalentemente nel secondo dopoguerra (ma anche prima in realtà), il caro John ha portato ad alcune rivoluzioni determinanti nel mondo della musica contemporanea. Non è compito specifico di questo articolo parlare nell'interezza dell'opera di Cage, piuttosto mi soffermerei su alcune caratteristiche utili ad argomentare la tesi iniziale e a spiegare la mia personale idee di sperimentazione musicale. Quando chiedevano a Cage "ma lei scusi, che ha rotto gran parte degli schemi della musica moderna occidentale, che musica suona, così eh, giusto per chiarirsi" lui giustamente si prendeva un po' male. Allora riflettendoci, e considerando gli approcci realmente "scientifici" dei suoi contemporanei, che vedevano nella musica concreta, nell'uso degli oggetti, nella suddivisione matematica di scale ed armonie, dei "metodi", delle cornici, degli strumenti, rigidi e rigorosi, decise di intendere il termine "sperimentale" come

Qualunque azione il cui risultato non sia prevedibile

e ci siamo arrivati. Quando ho letto "Silence", che è il compendio di scritti, conferenze e composizioni di Cage, questa definizione mi ha fatto esplodere la mente perché è esattamente l'approccio che, al tempo ma anche ora, ho utilizzato senza riuscire a darne una definizione specifica. Rispetto al nostro autore del commento Facebook iniziale è chiaro che la direzione è diametralmente opposta. Lui, sempre tolto il livore superficiale detto prima, richiede, per la sperimentazione, un entry level piuttosto alto:
- conoscenza musicale tecnico/storica
- conoscenza tecnica degli strumenti utilizzati (sintetizzatori, macchine varie, oggetti, strumenti musicali ecc...)
Una visione didattica che ha ovviamente delle solide basi nel mondo della musica: non è possibile che tu faccia qualcosa senza avere dei requisiti. Se provi a farlo comunque, il risultato che otterrai sarà inevitabilmente "brutto", "inefficace", "piatto", "scontato" e tutta un'altra serie di negative qualità che riflettono il fallimento del tuo tentativo artistico.
Cage si posiziona su di un altro piano. Argomentiamo poco alla volta, cercando poi di ragionare sulle contraddizioni che salteranno inevitabilmente fuori. John Cage, dopo una formazione classica in composizione e altre storie, perfettamente padrone degli strumenti della musica classico/contemporanea, attento studioso dei suoi pari, decide di infondere, all'interno del suo processo artistico alcuni elementi. Oltre a dare una nuova dignità al silenzio come spazio musicale fondamentale per la struttura di una composizione, inizia, fortemente influenzato da pratiche di mindfullness e di meditazione orientale, a utilizzare tecniche aleatorie (il libro dei mutamenti in particolare) per strutturare le proprie composizioni. Alla radice di queste scelte ci sono anche delle teorizzazioni molto forti riguardo alla figura del compositore in relazione a quella dell'esecutore e dell'ascoltatore. Sono cose che, nel mondo attuale, sopratutto nel campo performativo e delle installazioni, risultano già vecchie o poco innovative ma, immaginandole nella cristallizzazione musicale del secondo dopoguerra devono essere state una bomba atomica che mai, come intensità, saremo in grado di esperire.
C'è, con Cage, un passaggio di boa che dona una potenza nuova al caso e alle variabili che solo l'attimo presente è in grado di offrire, elementi che il compositore, durante la scrittura materiale di un brano, non sarà mai in grado di immaginare e che riguardano, per esempio, le condizioni ambientali di una sala concerti, l'emotività del pubblico e tutta un'altra serie di cose che abbiamo parzialmente toccato nei post sull'improvvisazione. Questo è il tema e, anche se il modo con cui la intendo è leggermente più vecchio di Cage, ho avuto modo di trarre molti spunti dall'opera del compositore americano. Giusto per tornare al mondo materiale, vi aggiorno sull'evoluzione del dibattito Facebook, trascrivendo la mia risposta iniziale:
          "A me personalmente piace tanto la definizione di musica sperimentale data da John Cage: "un'azione sperimentale è quella il cui risultato non è prevedibile" (circa, non ho "Silence" sotto mano). La discussione quasi sempre degenera su temi che con il contenuto ben poco hanno a che vedere ma l'imprevedibilità è un tema veramente affascinante quando si parla di musica. Da quando mi sono avvicinato a Cage, alle tecniche aleatorie e, più in generale all'improvvisazione radicale (senza aver alcuna competenza tecnico/didattica "formale" sull'argomento) ho capito che tutto ciò che faccio quando creo dei suoni (con il modulare, con la voce, con no-input mixer, con oggetti a caso, da solo o in gruppo ecc...) è SEMPRE sperimentale e la dignità di quanto creo non deve essere MAI messa in discussione. Questo perché, sempre seguendo Cage, l'importanza dell'atto sperimentale sta nell'atto in sé e successivamente nel prodotto. Ma in un gruppo Facebook (o in generale in un mezzo di comunicazione diverso dall'esperienza dal vivo) mi rendo conto che tutto questo discorso perde completamente di senso. Volevo giusto condividere alcune riflessioni sul significato della parola in causa che, nella mia sensibilità, appare decisamente diverso da quello da te proposto"
Oltre a sottolineare l'estrema inutilità di un dibattito del genere all'interno di Facebook, metto in campo alcune argomentazioni interessanti per la discussione. L'assenza di competenza tecnico/didattica è una cosa, da "autodidatta" NON "amatore", che mi sta molto a cuore e che, da "insegnante" (almeno in parte) reputo un vuoto educativo sia a livello scolastico liceale o tecnico che sia, sia e sopratutto a livello musicale che si palesa ancora di più in queste discussioni. La mancanza di conoscenza non inficia l'atto sperimentale. Questa è una verità, non una mia opinione. Dire "sei un ignorante" è una brutalità didattico/educativa che sterilizza il dialogo e affossa il tentativo evidentemente sperimentale di una persona. Questo non vuol dire che possiamo fregarcene della conoscenza tecnica o musicale che sia o dobbiamo smettere di esercitarci perché tanto è tutto uguale ma significa che, come scrivo nel primo commento di risposta, è educativamente abominevole non dare pari dignità a qualunque atto artistico. Per ricollegarsi a Cage, questa mia visione deriva anche dalle sue speculazioni sui metodi aleatori di composizione. Il "prodotto", che come sapete per me è un termine veramente orrendo se affiancato alla musica, ovvero il brano che viene ascoltato da un pubblico il quale darà una valutazione soggettiva edonica, non c'entra assolutamente nulla con il metodo, la composizione, l'esecuzione. Per Cage uno dei modi per separare i protagonisti di questa sequenza compositore ---> ascoltatore era l'utilizzo di tecniche aleatorie. Per me è l'utilizzo massivo di approcci di improvvisazione. Di sperimentazione. Anzi, mi spingo più in avanti: è l'unico modo (nella globalità, tecniche aleatorie e improvvisazione) per rompere (mentre lo scrivo mi accorgo che ne abbiamo già parlato) questo sistema malato che ha reificato persino un atto artistico come la musica e che, lo ripeterò all'infinito, mi fa vomitare.
Personalmente ho avuto la mia grande epifania artistica venendo introdotto al mondo dell'improvvisazione. Abbiamo lungamente parlato di questo tema e di cosa voglia dire per me ma, declinandolo in questo preciso contesto, è ovvio come improvvisazione faccia facilmente rima con sperimentazione. L'improvvisazione è automatismo dell'anima, giusto per sparare una definizione tanto facile quanto profonda. Il risultato di una perfomance improvvisata sarà sempre imprevedibile perché imprevedibili sono le basi emotivo/tecnico/psicologiche su cui si fonda l'atto stesso. Inoltre non possiamo includere l'improvvisazione nel novero degli esperimenti musicali scientificamente detti poiché i dati da cui partire di fatto non esistono come non esistono le costanti spazio temporali di riferimento. Il presente è un concetto arbitrario inesistente sul quale basiamo il nostro operato come improvvisatori. Atomizziamo il tempo e vi troviamo l'imprevedibilità, l'automatismo, l'azione-reazione, la psicoanalisi ecc... Non esiste nemmeno un frame metodologico come nel caso di Cage (che rimane all'interno della definizione di compositore, pur allargandone enormemente le maglie). Il possibile è la materia con cui operiamo anche se siamo fortemente limitati dalle nostre capacità tecniche es decir "non posso fare qualunque cosa di umanamente immaginabile" però al tempo stesso posso benissimo fare qualunque cosa di personalmente immaginabile e che si annovera fra le mie capacità. Non solo, posso farlo in relazione con quanto fatto da coloro i quali operino con me nello stesso tempo-spazio. Questo rende l'improvvisazione un esperimento bello e buono, sempre secondo la definizione di Cage.
Al tempo stesso il tema della "validità" dell'atto artistico può essere argomentato senza problemi: mancando i riferimenti è impossibile valutare qualcosa in termini edonici. L'unico punto è il rapporto che si instaura fra le persone, il legame di empatia che può nascere o meno e che riguarda sia i musicisti sia il pubblico. Mi sto ancora interrogando su cosa sia questo legame, su come sia possibile descrivere un'esperienza ma ho il timore di star forzando gli eventi nella solita cornice dualistica di brutto-bello. Forse la mancanza di riferimenti dovrebbe essere approcciata di conseguenza, accettando un'intrinseca impossibilità di comprensione: se il fine ultimo dell'improvvisazione è quello del non-io, dell'esperienza totale dell'altro, ed essendo questa esperienza umanamente inconcepibile, come posso giudicare l'atto in sé? Oppure: posso giudicare l'atto in sé? Esistono degli strumenti? Quando dopo un'improvvisazione sono soddisfatto, da cosa nasce questo sentimento? Questo sentimento esiste? Le sincronicità che sperimento che cosa sono? Ma molto più banalmente: gli altri esistono? Quello che io percepisco come altro non è solamente l'estensione di me? Non esiste null'altro che non sia io perché tutto quello che percepisco è il limite della mia realtà, il limite della mia persona. Quando improvviso, e quindi non esiste uno schema che possa dividere il mio ruolo, me, dagli altri e dal loro ruolo, chi è chi? Chi sta facendo cosa?
Ci siamo spinti troppo oltre. Direi che l'argomentazione iniziale è stata sviscerata efficacemente. Moltissima carne al fuoco su cui torneremo in un prossimo futuro.