giovedì 18 ottobre 2018

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Capitolo 0 - Perché è importante

Perché l'improvvisazione è (così) importante? La scorsa puntata ci siamo salutati con alcuni consigli di lettura e ascolto. Quasi di soppiatto, nascosto fra le righe, c'era anche un link a un articolo di "The Wire" riguardante una serie di incontri radiofonici, tutt'ora in onda, settimanalmente, incentrati sull'improvvisazione e gli aspetti umano - filosofici della pratica. A tenere questi squisiti simposi c'è Caroline Kraabel, sassofonista militante, attivista, conduttrice (non sempre) e membro della LIO, London Improvising Orchestra. Nel senso, una che ne sa a vagonate sull'argomento. Possiede un approccio pacato, conduce la conversazione in una maniera che, guardando la televisione moderna, non mi ricordavo neanche potesse esistere, con domande mirate ma giudiziose, rispettosa, apporta linfa alla conversazione senza interrompere, senza snaturare il dialogo dell'interlocutore. Alla fine si forma una sorta di informalità discorsiva, una narrazione fra due personaggi, ciascuno dei quali apporta la sua esperienza rispetto a una tematica comune che sorge prima, durante o dopo la narrazione stessa.
Le ultime parole sono incomprensibili se non si conosce la struttura di queste puntate radiofoniche. Innanzi tutto sono trasmesse da Resonance FM, radio indipendente londinese che fa comunella con tutta una serie di realtà più o meno oblique e politico - militanti londinesi (e inglesi) fra cui The Wire. La struttura si ripropone in tutte le puntate, almeno in quelle uscite fino ad ora. Si apre con un brano, necessariamente improvvisato, proveniente dalla produzione dell'artista invitato oppure, come nel caso della puntata del 11 ottobre 2018, con un brano "inedito" nato dalla collaborazione di Caroline con l'ospite (in questo caso specifico la violinista e polistrumentista Pei Ann Yeoh). Faccio una doverosa precisazione: di tutte le puntate trasmesse fino ad ora, solo quella sopracitata, quella con la violinista polistrumentista Pei Ann Yeoh, presenta un brano inedito nato dalla collaborazione fra l'ospite e la conduttrice. Le altre sono incentrate sull'intervista e vengono accompagnate, all'inizio e alla fine, da brani tratte sopratutto dalla discografia o da registrazioni live della LIO.


Capitolo 1 - Entrare nel vivo

Entriamo nel vivo quindi.  Il post scorso abbiamo ampiamente parlato di cosa significhi improvvisazione per me, alla luce delle mie scarsissime esperienze in materia. Siamo giunti alla raffazzonata conclusione, condita con una massiccia dose di entusiasmo, che l'improvvisazione sia una branca artistica dell'empatia, una sorta di palestra dell'immedesimazione dell'ascolto. Più che una palestra, utile per affrontare l'insidia della realtà, ribalterei le cose, definendo la realtà una palestra per affrontare la battaglia dell'improvvisazione. Ma neanche così è corretto, l'improvvisazione non è mica una battaglia. Non importa, ci sarà tempo per affrontare la gerarchia fra vita sociale, reale e realtà improvvisata, performance. Posto che sia una gerarchia ma anche qui, lascerei la parola al me futuro. 
Sicuramente quanto detto in precedenza, sul post numero 1, è reale, proviene dalla mia mente e lo sottoscrivo in pieno. Però è pur sempre frutto di un'epifania, non di un meticoloso studio e di una altrettanto meticolosa pratica. Dico pratica perché studio poco si sposa con l'idea di improvvisazione. I protagonisti del Podcast sono persone che navigano (o si lasciano navigare più precisamente) il Maelstrom da anni, se non decenni e parlano con cognizione di causa, con il polso dell'esperienza. La loro è certo un'esperienza soggettiva, inclusa in un contesto comunitario ed è espressione di un viaggio, una sorta di studio naive dentro i meandri della pratica. Riescono a sviscerare una serie di tematiche molto importanti fra cui la relazione fra società e improvvisazione, i ruoli che si sviluppano, le problematiche, il dialogo; tutte cose che non nascono, per tornare al discorso di prima, dentro un novizio dell'improvvisazione, sono domande che posso avere all'interno di me, avendone sperimentato gli effetti ma non riesco sicuramente a concretizzarle attraverso il linguaggio. Come Uochi Toki quando scolpisce un'idea astratta dell'immaginario collettivo. 

Durante i dialoghi vengono affrontate anche le relazioni che l'improvvisazione, nella mia mente prima di tutto musicale, possiede con le altre arti, in particolare con il disegno e la danza. Sono associazioni strane da trattare per quanto mi riguarda poiché aliene alla mia sensibilità ma comunque reali nella pratica. Sono legami che, ad essere esplorati, potrebbero apportare un livello nuovo di consapevolezza e sopratutto un nuovo e potente modo di trasportare l'improvvisazione all'interno dell'idea di comunità. Il concetto di inclusione si riferisce proprio a questo: artisti visivi o ballerini, fino a poco fa non avevano "tantissimo" spazio nel mio piccolissimo universo di improvvisazione. Ora, dopo l'ascolto, sicuramente si ritaglio un posto di democratica condivisione, il disegno in primis (ma solo perché ho assimilato meglio l'episodio, lo ammetto). 

Caroline inoltre spinge molto l'acceleratore sulla relazione fra improvvisazione e società. La domanda viene posta a tutti gli intervistati, quello che cambia è il contesto in cui la domanda viene calata. Probabilmente è il fulcro di tutta la narrazione, la relazione che esiste fra, per esempio, industria musicale, capitale, struttura sociale e improvvisazione, passando però fra la rappresentazione dei ruolo nel gruppo e la stessa all'interno del macro cosmo sociale. Sono cose veramente profonde che, ovviamente a posteriori, posso anche ritrovare nella mia di esperienza, per quanto piccola. Lo spettatore, il musicista, il tipo di musicista, la diversa personalità sia in un caso che nell'altro, sono tutti attori protagonisti dell'istante performativo così come della realtà sociale. Da questi due scenari le persone possono trasportare nell'altro la propria esperienza, arricchendosi e arricchendo gli altri. Per questo prima parlavo di palestra e ci tengo a tornare rapidamente sull'argomento: l'improvvisazione è sì una palestra in cui affinare il proprio concetto di comunità e di relazioni. Lo è nella misura in cui rappresenta la carne viva, il collegamento scoperto fra le persone. Probabilmente perché prescinde dal linguaggio o dall'intermediario (anche la musica è un linguaggio ma l'improvvisazione prescinde da, per esempio, uno spartito). Sottolineo però che non esiste una gerarchia fra contesto dell'improvvisazione e realtà sociale. Anche perché, secondo Caroline ma anche secondo me, anche se non riesco a metterlo in pratica come probabilmente fa lei, l'improvvisazione è una "Everyday Practice", un mantra quotidiano. L'improvvisazione è anche applicata da tutti noi, più o meno involontariamente, nelle conversazioni con persone che non conosciamo. Per questo un altro tema abbastanza ricorrente durante le trasmissioni, è il concetto del "gruppo" di improvvisazione come un qualcosa che cadrà, involontariamente o meno, facilmente o meno, nella ridondanza e nel "pattern". Questo concetto non è del tutto vero secondo me e dipende molto dall'espressività degli strumenti, non dei musicisti. Certo è che una relazione stabile, extra musicale, fra i componenti, impatta alla lunga sul reinventarsi stesso ma è anche un concetto che mutua molto dagli strumenti tradizionali: credo che la nuova generazione di improvvisatori, con l'ampio utilizzo dell'elettronica e del computer, possa in qualche modo smarcarsi da questo, avendo a disposizione un universo di possibilità sonore. A questo si lega poi il concetto di tecnica più che di teoria musicale come base per la nuova improvvisazione ma a questo penseremo decisamente un'altra volta.


Un altro, affascinante e ricorrente, tema delle discussioni è la condivisione del potere all'interno della performance. Il potere sociale possiamo immaginarlo più o meno tutti a seconda delle nostre capacità e caratteristiche di vita. Il potere nell'improvvisazione è, da un lato, il saper guidare gli altri attraverso il gorgo, e questo viene detto più precisamente "conduzione", dall'altro è l'emergere dalla comunità per passare al singolo, per esporsi. Anche per questo argomento vale la regola della mia ignoranza più o meno totale e dell'incapacità di esprimermi correttamente pur avendo una vaga idea del concetto. Pensiamo per esempio ad un gruppo jazz, o non necessariamente jazz, tradizionale: i componenti conoscono un tema che si ripete nel corso della canzone e progressivamente, a turno, si scambiano il potere di emergere nella realizzazione di un assolo. Un grande esempio, prolisso ma emotivamente molto importante per me è sicuramente questo. Potrebbe sembrare una scelta democratica, la scena si alterna fra i vari componenti senza grosse prese di potere o imposizioni ma ci sono vari punti che stravolgono questa idea democratica:
- la presenza di una scena: c'è una scena da prendere, c'è una catalizzazione dell'attenzione su un singolo componente. Questo è, alla base, poco democratico perché limita l'espressività degli altri. Nell'improvvisazione la scena non esiste perché, nel caso più bello e coinvolgente, ogni aspetto della performance, dai musicisti, agli spettatore, alla "temperatura della stanza" come dice giustamente Caroline, fa pare di un unico momento performativo. Potremmo anche ammettere la presenza di una scena ovvero tutto quello che succede ma allora dovrebbe definire la condivisione della scena stessa.
- la paternità: il tema è di Chick Corea, è suo, patentato, copyraiato. Una sua specifica proprietà. Quando gli spettatori vanno a sentire Chick Corea, vanno a sentire lui e lui soltanto. Gli altri componenti del gruppo sono relativamente importanti, non lasciano un'impronta nella mente delle persone. In un gruppo di improvvisazione gli spettatori, oltre a far parte della performance, non fanno distinzioni fra i musicisti e anche se questo dovesse accadere, la natura completamente aleatoria dell'evento potrebbe stravolgere le loro aspettative. Come dire che i musicisti potrebbero benissimo suonare nascosti da una parete (anche se questo eliminerebbe il vitale aspetto fisico ma ci siamo capiti). L'ultima frase getta luce su di un tema a me molto caro che è l'anonimato nel concerto o nella musica in generale. Molto probabilmente ci sarà un post dedicato a un libro, un piccolo almanacco, che ho letto recentemente sul rapporto fra improvvisazione e capitale. In uno dei capitoli viene affrontato il concetto di proprietà intellettuale, copyright, copyleft, creative commons e anti-copyright e sul rapporto che hanno con l'industria musica e con la musica improvvisata. Anche in questo caso l'argomento è ancora oscuro per quanto mi riguarda ma punto a una chiarificazione e una dettagliata trattazione quanto prima, dopotutto è un argomento su cui porsi delle domande. Potrei anche azzardare un "la proprietà è un furto" essendone anche abbastanza convinto ma vorrei sicuramente approfondire. Siamo stati abituati a esercitare una proprietà privata sulle cose materiali e immateriali ma in realtà vale l'affermazione che

Quando io e te abbiamo una mela a testa e ce le scambiamo, entrambi terminiamo con una mela. Quando io e te abbiamo un'idea a testa e ce le scambiamo, entrambi terminiamo con due idee. 

Questo è molto interessante perché apre due prospettive opposte: da una parte la collettivizzazione delle idee e di conseguenza della musica ("io sono ben felice di condividere la mia musica e le mie idee così come sono felice di riceverne da altri"), dall'altra chiude la porta a doppia mandata tutelandosi attraverso dei sistemi di protezione delle proprietà intellettuale. Se condividiamo un'idea almeno che questa condivisione sia a pagamento e ci permetta di trarne un profitto. In questi termini l'improvvisazione è l'anatema, poiché non posso commercializzare o proteggere qualcosa (un'idea, un pezzo di musica) che esiste solo ed esclusivamente nel presente e la cui registrazione vale nulla, di fatto, poiché non tiene conto delle variabili irriproducibili come la temperatura della stanza o gli spettatori e le loro emozioni. 
Ad ogni modo non voglio dilungarmi su questo argomento e chiudo qui il paragrafo, sicuramente torneremo a parlarne perché è qualcosa che mi sta decisamente a cuore. 


Capitolo 5 - Iperspecifico

Molti dei temi che abbiamo introdotto legandoci alla trasmissione di radio Resonance, verranno senza ombra di dubbio discussi in un'altra sede. Ora vorrei parlare precisamente di uno degli episodi, quello in cui compare, come invitata e interlocutrice, Julie Pickard, personaggio a me assolutamente sconosciuto prima d'ora. Cosa fa Julie Pickard? Cosa c'entra con l'improvvisazione?
Julie è un'artista grafica, non musicale. In realtà studia pianoforte durante l'infanzia ma, anche se effettivamente la posizione della mani, la tecnica di quella che vedremo dopo essere la sua principale attività, mutuano molto dalla pratica del pianoforte, abbandona per dedicarsi all'arte visiva. Parafrasando: è una disegnatrice che poco o nulla ha a che vedere con la musica suonata, al massimo, per sua stessa ammissione, si ritrova nel ruolo di spettatrice. 
Perché dunque invitarla ad un dibattito sull'improvvisazione? La verità è che la cara Julie produce dei disegni dal vivo, suggestionata dalla musica improvvisata. I disegni sono a loro volta improvvisati, una sorta di produzione grafica subcosciente rituale in cui Julie vaga guidata più o meno da ciò che ascolta e da ciò che vede mentre i musicisti suonano. 
Partiamo da qualcosa di tangibile così tutti sappiamo di cosa stiamo parlando: sul sito della London Improvisers Orchestra trovate alcuni suoni disegni. Sono molto stilizzati, rapidi, il tratto sottile, quasi astratti direi anche se è possibile riconoscere delle suggestioni di strumenti o volti o figure umane. Julie afferma più volte che questi oggetti reali possono comparire spontaneamente nel disegno a seconda del momento o dell'idea che le frulla in testa. Aggiungo: basta andare sul sito personale di Julie Pickard per avere un'idea un po' più significativa.

Cosa dice Julie riguardo a quello che fa? Lei semplicemente va ai concerti (all'inizio, ora viene invitata dai musicisti o dall'organizzazione) con il suo borsello, i suoi pennarelli a punta finissima di diverso colore e i suoi fogli di carta di diverso tipo e dimensione. I musicisti si dispongono, cominciano a suonare, aumentano e diminuiscono l'intensità e lei semplicemente li segue, senza entrar a far parte della performance. Il suo ruolo è esterno anche se viene ovviamente influenzato. Può fermarsi, può iniziare o finire prima o dopo i musicisti senza che questi ne vengano condizionati. Sicuramente questo rappresenta una libertà poiché mi lascio attraversare senza che il mio lavoro si ripercuota sugli altri. Un disegnatore che impatta sulla performance è una cosa completamente diversa, diventa un musicista di fatto. Anche Julie argomenta questo, ricordando un esperimento con un microfono a contatto sulla sua mano. Lascia intendere che preferisce un approccio esterno nonostante l'esperienza sia stata un "qualcosa di completamente diverso". 
Interessante l'utilizzo dei colori. Se per un musicista le note e le variazioni sonore possono essere dei modi per espandere la narrazione dell'improvvisazione, per un'artista grafica come Julie la questione è più complicata poiché deve contemporaneamente disegnare e improvvisare, non sta facendo un ritratto per capirci, non ha tempo per pensare o per cambiare da colori a olio alle tempere. In suo aiuto viene il tratto, il tipo di pennarello, ovviamente il movimento della mano o di entrambe le mani e il colore. Colori diversi evocano sensazioni diverse, ed è solamente la rappresentazione mentale della musica, una cosa completamente personale, a decidere l'eventuale cambio. Per me il blu potrebbe rappresentare un suono stridulo, pieno di alte frequenze, o uno metallico, mentre il rosso una cupa vibrazione bassa, un suono ritmico, ma è una mia rappresentazione, è il mio modo di disegnare la musica. 
Improvvisazione nel disegno significa anche trascendere il concetto di tecnica. Disegnare con due mani, una cosa che Julie afferma di fare e che mi affascina molto, trasforma l'atto in un balletto, in cui le linee si possono allontanare, avvicinare, accoppiare, proprio come durante un'improvvisazione, fra il basso e la batteria o fra i suoni elettronici, le urla, i ticchettii. Il foglio può diventare un campo di battaglia con estrema facilità, se la contingenza del momento mi spinge a farlo, posso addirittura uscirne, disegnare sulle mani, per terra, sulle altre persone (qua forse sto divagando un po' troppo ma ci siamo fatti un'idea).
Come afferma un'altra invitata del programma di Caroline, si entra in uno stato di trance, una sorta di perpetuo presente in cui l'unica cosa che conta è l'attimo. L'altra invitata di cui parlo è una cantante, docente di improvvisazione la quale, nel momento della catarsi, evoca parole, parole di senso compiuto dalla propria mente, concetti che, seguendo un invisibile filo conduttore, si dispongono e si dipanano. Lo stesso potrei dire di Julie, anche se lei non lo esprime con così tanta chiarezza.

Prima di passare alla mia umile esperienza in merito, esperienza che si vedrà legata alle foto che accompagnano questo post, punto i riflettori su una bellissima cosa detta da Julie durante l'intervista. Nella sua carriera di disegnatrice e improvvisatrice, le è capitato che due musicisti le chiedessero un disegno da utilizzare come spartito per una sessione di improvvisazione. Purtroppo è successo solamente una volta ma è una cosa che per quanto mi riguarda è veramente sconvolgente. Un paradosso dentro il paradosso nel momento in cui uno spartito, la cosa più lontana dal gioco dell'improvvisazione è in realtà un'opera di improvvisazione. Non è lo stesso che avere un foglio con scritto "improvvisa", sono due cose diverse per quanto mi riguarda: è l'interpretazione nell'interpretazione, un gioco di rimandi, non un condividere il microcosmo interno assieme ad altri musicisti. Non so se quello di Julie fosse un tentativo isolato poi ripetutosi nel futuro. Sicuramente lei ne parla con entusiasmo e, per quanto mi riguarda e per quanto ne so, potrebbe essere una frontiera da valutare con decisa attenzione.

La mia esperienza con il disegno improvvisato è stata rapida ma significativa ed è sostanzialmente durata una sera. Quello che ho fatto è però diverso da quanto portato da Julie: sono diventato attore protagonista della performance musicale utilizzando varie sistemi di registrazione dell'atto del disegno. Purtroppo non ho avuto modo di improvvisare su carta durante una performance musicale quindi ho dovuto seguire una patch modulare quasi auto generativa e disegnare le suggestioni evocate. Devo ammettere che è stato veramente totale. Ho potuto assaporare il mio personale iper presente che tanto riferiscono, la catarsi, la mano che si muove autonoma priva di uno stimolo cosciente (ma guidata da chissà quale moto di spirito). Le foto allegate sono tutti disegni che ho fatto durante queste prove. Purtroppo, ed è una cosa limitante mi rendo conto, non ho registrato nulla e quindi la cosa cade un po' a metà, nel vuoto. Ci tenevo però a esprimere queste impressioni che secondo me sono importanti nel momento della crescita artistica personale.
Tecnicamente ho amplificato e microfonato una lastra di plastica sospesa fra tavolo e sedia. Su questa lastra ho poi disegnato quello che si vede nelle foto. Ho seguito in parte quanto veniva più o meno autonomamente prodotto dai moduli, in parte le riverberazioni e i feedback di quanto stavo io stesso facendo. Il resto è stato un buttarsi nel gorgo e lasciarsi trasportare. Ci sono stati dei pattern ricorrenti, per esempio la cornice oppure linee spezzate. Alla fine di una delle sessioni ho appallottolato il foglio attorno al microfono producendo quella pallina che si vede all'inizio del post.

Insomma, tantissima carne al fuoco anche questa volta. Piano piano stiamo dipanando una trama di suggestioni e argomenti veramente molto profonda. Per trovare i podcast a cui mi riferisco, basta andare su mixcloud e cercare "Why is improvisation important?". In realtà il punto di domanda non serve. Per ora sono 5 episodi e vengono pubblicati con una cadenza settimanale.


domenica 7 ottobre 2018

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Forse ritornare, di nuovo, alla progettazione, non sarebbe poi tanto male. Questo è un periodo di riflessioni sia dentro me che fuori-da-me. Mi sto recentemente scontrando con tutta una filosofia dell'oggi che non immaginavo esistesse. La discussione di ieri sera è terminata con "se automatizzi e le persone non hanno niente da fare, passeranno tutto il loro tempo a farsi seghe mentali". Che è un po' quello che sta succedendo a me. Togliendo però l'angoscia per il mondo (inteso come sistema terra, sia materialmente che socialmente) rimane in me una certa positività, una sensazione di sottile epifania quasi. Questo per dire che alla fine è un bel periodo, tutto sommato non mi lamento. Una questione da sollevare potrebbe essere la ricerca di un lavoro, la gratificazione del percorso didattico, l'attivo mettersi in gioco ma anche questi aspetti verranno impegnati gradualmente spero, già qualcosa si riesce ad intravedere. 
Detto questo la questione diventa molto più ristretta fortunatamente: come convogliare quanto detto sulle nuove aperture filosofiche in qualcosa che possiamo effettivamente tangere, come la musica, la cultura, l'arte? Parafrasando: come sto affrontando musicalmente questi "quasi-piacevoli" turbamenti interiori? 

Capitolo 1 - L'improvvisazione e l'idea di libertà

Buttiamoci subito a capofitto in quello che credo sia l'argomento più pregnante e fondante della discussione. Recentemente, assieme ad un caro amico molto più formato di me su questi temi (ma anche sul tema della musica elettronica in generale) ho sperimentato una cosa che mai avrei creduto possibile: l'improvvisazione radicale. Quando penso a improvvisazione radicale penso subito al free jazz. Mi spiego: nella mia testa solo il jazzista conservatorato è in grado di raggiungere una padronanza tale dello strumento da permettergli la libertà di rompere i muri delle regole musicali. Per gli altri la questione diventa difficile e i tentativi si riducono a cacofonia e stereotipie dei suddetti jazzisti. Questa è una visione reale fino ad un certo punto. Il fulcro è "padronanza dello strumento". Se il tuo strumento è il sax, chiaro, devi padroneggiarne le regole e i meccanismi. Se il tuo strumento è una macchina elettronica incontrollabile la questione si fa più facile: le regole che il free suppone di rompere tu, suonatore di strumenti elettronici del demonio, non sai neanche cosa siano. I muri da scavalcare sono solo delle linee per terra. Questo però espone a dei problemi enormi nel momento in cui una sessione di improvvisazione si trova a fare i conti con il concetto di melodia, armonia etc... Queste sono regole che il suonatore di strumenti elettronici del demonio non potrà mai rompere perché non riguardano il suo strumento. La benedizione diventa all'improvviso qualcosa di negativo: l'idea di libertà nasce (anche) dal superamento delle regole, se non ci sono regole, viene meno l'idea di libertà (più o meno). Questa è una dicotomia fondamentale: da un lato hai la formazione che, molto consapevole delle regole, riesce ad abbattere gli stessi muri che si è creata; dall'altra hai persone che non hanno alcuna formazione, alcun muro e che semplicemente improvvisano. Dov'è il giusto? Partiamo da me, per fare un esempio tangibile. Io non ho alcuna formazione musicale, al massimo so un po' di ritmo ma neanche quello. Ho però una certa padronanza sugli strumenti che utilizzo nel senso che li conosco, sono una parte di me. Facendo un passo avanti nella discussione posso sicuramente affermare che il tentativo di improvvisazione che accennavo prima è andato bene, è andato molto bene (ma di questo parleremo dopo). Quindi perché, nonostante io non abbia assolutamente una formazione tecnico-didattica in musica, la performance è comunque riuscita? Il segreto per me sta nelle proporzioni: gli ingredienti sono quelli detti prima, studio, che ti permette l'utilizzo di tutta una serie di avanzate tecniche musicali ma a cui si lega intrinsecamente la difficoltà di superarle, e spirito naive a cui però si lega una certa sterilità di performance che per essere efficace dovrà attingere ad altre capacità proprie dell'individuo indipendentemente dalla formazione musicale e dalla tecnica. Se le proporzioni sono mantenute in maniera equilibrata allora la performance avrà una buona base per poter procedere. Dico buona base perché, purtroppo o per fortuna, questo equilibrio non è assolutamente tutto il necessario. C'è bisogno di un'attitudine filosofica, un modo di porsi nei confronti del limite. C'è bisogno di empatia
L'empatia è il fondamentale discrimine fra jam e improvvisazione radicale. La jam ha delle regole (melodiche, ritmiche, strutturali del brano) che, venendo poste a priori, permettono ai partecipanti di avere dei punti di riferimento a cui aggrapparsi per non perdere il filo della narrazione. Perdere il filo della narrazione è quello che DEVE succedere in un'improvvisazione radicale. Come fare ad orientarsi nel mare infinito delle possibilità? Ci sono vari modi: il più facile è sicuramente quello di confondere una regola con un'intuizione, rientrando in schemi melodici o ritmici senza rendersene conto. Questo è un errore strutturale e quando appare in una performance lo si nota. L'altra possibilità per "orientarsi" (posto che orientarsi non è assolutamente il termine corretto) è l'empatia, buttarsi dentro gli altri. 

Capitolo 2 - L'empatia e l'idea di libertà

Il concetto di empatia è qualcosa di talmente vago e sfaccettato che tentare di inquadrarlo qui mi sembra davvero un po' troppo. Voglio però citare, giusto per avere delle coordinate, la mia idea di empatia, cosa significhi per me essere empatici. Empatia è il salto dentro l'altro. Mutuo in realtà questa definizione dalla base concettuale-filosofiche di una della mie branche psichiatriche preferite, la psicopatologia descrittiva. La descrizione minuziosa di un disturbo richiedere capacità di osservazione e immedesimazione, ovvero empatia. Senza il salto dentro l'altra persona, la descrizione di qualcosa diviene decisamente sterile, didattica, accademica quasi. Solo la personificazione dell'altro dentro me, riesce a superare questo ostacolo. Cosa c'entra l'empatia con l'improvvisazione e con l'idea di libertà? C'entra in maniera imbarazzante perché è l'unica cosa che mi permette di navigare il Maelstrom delle possibilità. Per prima cosa bisogna buttarsi nel gorgo (nero che non mostro, altrimenti mi chiameresti mostro) assieme ai propri compagni di viaggio. Poi bisogna darsi la mano, non, come è effettivamente lecito pensare, per evitare di essere risucchiati ma, al contrario, per essere risucchiati assieme. La solitudine del gorgo è quanto più lontano dall'improvvisazione ci possa essere. Trasportando questa immagine figurata nella realtà, il controllo del risucchio nel gorgo è quello che fa la differenza fra una bella performance e una non particolarmente riuscita. 
E la libertà? Come si legano i concetti di libertà ed empatia? Molto semplicemente in realtà. L'epifania della libertà ovviamente accade nel momento in cui si abbattono i muri ma, personalmente, non è sufficiente. Serve il salto nell'ignoto e, per me, ignoto è l'altro. Non mi era mai capitato di saltare in un'altra persona con così tanta abnegazione, senza limitazioni o pregiudizi. Un bel litigio o un'accesa discussione (non violenta fisicamente ovviamente) sono dei surrogati che si avvicinano a quello che sto dicendo. Lo sforzo attivo per comprendere gli altri e le loro posizioni è certamente un'attività dell'empatia. Anche l'improvvisazione è dialogo ma è un dialogo senza parole, molto più profondo. La differenza potrebbe risiedere nel risultato finale: in una discussione la tua assenza di empatia porta semplicemente ad un arroccarsi sulle proprie posizioni che, alla fine, risultano al massimo rafforzate. Può accompagnarsi all'incazzatura per aver discusso animatamente, si può urlare, ci si può addirittura allontanare dall'avversario (che tale è, un avversario). L'improvvisazione non è una lotta, non devi vincere. Devi raggiungere un obiettivo assieme, devi navigare il gorgo oscuro, il Maelstrom, dando la mano ai tuo compagni di viaggio, fondendoti con loro. Se la solitudine nell'improvvisazione è un male, il combattimento fra fratelli è un anatema, un fallimento. Attenzione però, è possibile (e nella bibliografia sull'argomento gli esempi sono innumerevoli) che ci sia uno scontro, magari per motivi personali trasmigrati all'interno della performance, fra i componenti. Anche qui la differenza sta nel modo con cui questo viene risolto e condotto. Personalmente però, non riuscirei mai ad improvvisare con una persona che odio o con la quale ho dei conti in sospeso nel mondo reale
Se il salto nell'ignoto dell'altro rappresenta indubbiamente un esempio di empatia, il passo successivo per arrivare al concetto di libertà è la condivisione del momento di fusione empatica con gli altri. La libertà è dono per quanto mi riguarda. La libertà è sinonimo di comunità. Ritorniamo un attimo all'esempio reale che riguarda me: assieme al caro compagno di viaggio abbiamo provato un paio di volte prima di lanciarci in questo festino free-impro. Il risultato è stato quanto detto fino ad ora, nel senso che le prove, noi due soli, sono state impregnate di questa empatia, di questo salto nell'altro ed entrambi ce ne siamo perfettamente accorti. Posso dire questo perché il risultato finale, magari non eccelso secondo i crismi e canoni dei puristi, appaga certamente noi come persone. Il gradino successivo è stato il festino, una situazione più o meno pubblica in cui abbiamo proposto questo format di improvvisazione ad alcuni amici e conoscenti. La magia è scattata qua: quando pratichi questo rituale di fusione delle coscienze che è l'improvvisazione, hai, secondo me, bisogno di orecchie terze per poter scaricare l'energia prodotta, solo così raggiungi quella libertà tanto agognata. Il tuo io, super carico di tensione proveniente da ciò che stai facendo con un'altra persona, si stempera negli spettatori. Se questo flusso di energia (primo) esiste e (secondo) è bidirezionale, allora il rituale è completo. 
Ho maturato questi concetti leggendo qualcosina ina ina sull'argomento ma sopratutto rivedendo il retrospettiva quanto vissuto nella mia esperienza di spettatore. Molte volte mi sono trovato in situazioni di free sterili, in cui questa comunicazione non esisteva. Altre volte invece il passaggio è stato tanto intenso da travolgermi, anche se non avevo modo di descriverlo a parole, come sto facendo ora. Il fatto che il modello che ho (non proprio autonomamente) pensato mi permetta di spiegare le esperienze vissute fino ad ora, mi rincuora sulla bontà del modello stesso. 

Capitolo 3 - L'improvvisazione e la tecnica. Da un'esperienza personale alla critica del modello vigente.

Volevo ora entrare su una questione tecnica che mi sta particolarmente a cuore. Durante queste prove/concerto il mio strumento era un sintetizzatore modulare. Ora. Nel corso di questa avventura musicale che mi sono trovato a vivere ho maturato la convinzione che, come fa notare una Caterina Barbieri (artista che non mi piace tantissimo ma che stimo come persona e "pensatrice") le persone che fanno parte di questo mondo e che circondano questi artisti modulari tendono a identificare il meccanismo di produzione con il prodotto, tartassando lei e i suoi pari di domande tecniche su quali e quanti moduli conoscano o utilizzino spogliando completamente il brano o la performance del suo valore. Cospargendomi di cenere ammetto di aver approcciato anche io il mondo modulare in questo modo, carico di stereotipi, di forum e di video su youtube alla ricerca del modulo definitivo da 50000 soldi da sognare ma non potermi permettere. Le cose sono cambiate con questa esperienza di improvvisazione. Keith Rowe, un tipo che mi trovo ad amare approcciando il mondo del free, disse che per rompere completamente le regole l'unico modo era utilizzare il suo strumento (una chitarra) come se fosse un'altra cosa. La soluzione, per lui, fu girare la chitarra orizzontalmente e utilizzarla come tutt'altro strumento. Quello che venne fuori e una buona chiave di lettura del movimento di libertà musicale che copre il dopoguerra e arriva fino ad ora. I moduli sono, per fortuna, ancora molto meno stereotipati di una chitarra nel senso che la vastità della galassia modulare permette degli approcci tutto sommato infiniti. Il problema è che, anche in questa galassia, le categorie cominciano ad emergere, creando dei microcosmi fatti di club music e di ambient/drone. Come si può notare dai post precedenti io sono un grande amante del drone ma non mi permetterei mai di confinare il mio strumento a delle regole che la comunità ha arbitrariamente scelto per me. Sarebbe illogico e irrispettoso. Questo lo dico (cospargendomi il capo di cenere) alla luce di quanto vissuto nell'ultimo periodo: fino a poco tempo fa pensavo esattamente le cose che pensa la comunità, fare droni o cassa più o meno dritta. 
La cosa realmente affascinante però è che questo territorio che unisce synth modulari a improvvisazione radicale è inesplorato. Lo è anche il punto di unione fra realtà è synth, esplorabile attraverso i sensori e i controller. Ho battuto molte volte il concetto che in questo campo esista una fisiologica relazione biunivoca fra macchina e uomo, ma non mi ero accorto che per tantissimo tempo la macchina stava schiacciando, naturalmente e inconsapevolmente, la mia creatività. Ho passato moltissimo tempo fissando il mio synth fare un po' quello che gli pareva, nonostante fosse in parte su mia indicazione. (Ri)appropriarsi del ruolo "alla pari" dell'operatore in questa equazione è ora una vera rivoluzione, un conquistare un territorio vergine e pieno di infinite possibilità. A questo proposito mi ha fatto molto riflettere una discussione nata su una community su synth e altre amenità. Il personaggio in questione argomentava, con un certo nichilismo, che la macchina ha un inizio e una fine, per quanto vasto sia il territorio. Le possibilità melodiche sono finite e, secondo lui, lo sarebbero anche quelle sonore, timbriche per usare un termine che diocane mi fa proprio vomitare. Sulla prima opinione mi trova assolutamente d'accordo, non sono un grande amante della melodia. Sul secondo assunto meno ma la verità è che ha un po' ragione. E quindi? La soluzione è facile: riappropriasi del ruolo che spetta all'operatore nella relazione uomo-macchina e fare improvvisazione. Non da soli ma con gli altri e in mezzo agli altri. Non ci saranno mai due performance uguali e le possibilità si apriranno, infinite, davanti a noi.
Sottolineo ancora una volta con gli altri e in mezzo agli altri. Pensare che la propria cameretta sia appagante e l'inizio-e-fine-di-ogni-esperienza può essere anche facile e bello ma è una trappola del cazzo che sta riducendo gli individui a salme dentro i loculi. 

RIAPPROPRIAMOCI DELLO SPAZIO COMUNE, USCIAMO DAL LOCULO, FACCIAMO IMPROVVISAZIONE 

Ci salutiamo direi, perché il tempo necessario a leggere tutta questa merda è abbastanza elevato. In ogni caso vi lascio alcune letture e alcuni ascolti. Il primo disco, in alto appena iniziato il post è del gruppo AMM, sigla storia dell'improvvisazione britannica. Non me la sento di consigliarvi nulla che riguardi il free jazz tradizionale (Coleman free jazz per esempio, è un disco che mi sa di jazz, non di free). Da AMM potreste passare a MEV, Musica Elettronica Viva, gruppo di improvvisazione radicale, elettronica, free, nato e cresciuto nella Roma degli anni 70. Da AMM il passo è brevissimo per conoscere Keith Rowe, personaggio sicuramente seminale che ha prodotto nel tempo una caterva infinita di dischi e altre storie. Non vi consiglio un disco suo ma l'opera definitiva su quanto ha fatto e su quanti gli sono ruotati intorno nel corso del tempo. 


Altro personaggio che ho imparato ad amare e che sto continuando a studiare, fra riferimenti, storia e leggenda, è sicuramente David Toop. Autore del libro che mi ha permesso di fare i ragionamenti di cui sopra, è stato e continua ad essere un personaggio fondamentale nella scena improvvisata Inglese, alla pari con il caro Rowe. Vi consiglio il libro che segue, dal quale poi potrete addentrarvi nella giungla della musica libera con una sorta di cartina in mano. Purtroppo si ferma prevalentemente agli anni 70 (dal secondo dopoguerra) ma ci sono anche dei riferimenti recenti. Poi la bibliografia e la discografia sono molto corpose.  


E basta dai è abbastanza materiale. Poi la verità è che scoprire da soli le cose, vivere delle piccole e solitarie epifanie, è molto gratificante. Il discorso non è ovviamente chiuso, questo post ha richiesto molte energie per essere pensato e scritto, manca tutta la parte personale dei concerti fatti e aggiornamenti tangibili anzi, ascoltabili, su quanto prodotto. Tempo al tempo, un passetto alla volta.

ah si. QUESTO