lunedì 7 aprile 2025

involuto




quanto tempo è passato.

quante volte rileggo e rileggo i post del passato e penso che vorrei tanto scriverne uno nuovo. la probabilità che succeda è praticamente zero. ma non del tutto. e queste righe ne sono una prova tangibile. ogni volta che attraverso questa serie di fasi (desiderio- rinuncia- desiderio- possibilità) scorrendo le pagine (e pagine) del blog, mi sorprendo di due cose, più o meno nell'ordine:
- quanto io scriva e abbia scritto solo ed esclusivamente per me stesso;
- quanta profondità personale io abbia raggiunto nel mio recente passato;
in particolare il secondo punto mi lascia ogni volta disorientato. c'è un incredibile passaggio sulla visione in scala di grigi avuta alla guida, in autostrada, in macchina con mia madre. se lasciamo perdere gli sbrodolamenti esistenzialisti sulla radura dell'essere, è un post di un candore disarmante. non credo che sarei in grado di scrivere una cosa del genere, adesso.

adesso. cosa c'è adesso?

il primo dei due punti mi fa oscillare. da un lato vorrei cedere alla tentazione di raccontare tutto, ma-tutto. alla fine se scrivo queste righe per me solo, non è che un diario quello che sto stilando. certo ci saranno fancy immagini e suonini di soundcloud ma un diario rimane, come il piccolo taccuino in cui mio padre si annota un evento significativo per ogni giornata (una parola, una corta frase "fabio laureato!"). come colloco tutto questo? è un tentativo di ricordare? o è un tentativo di non sparire? di riconoscersi guardando indietro. mi ripeto con ossessione che non tornerei mai indietro ai miei 17-24-27 anni, che quello che ho ora è meglio di ciò che avevo e di ciò che ho avuto. e probabilmente ho anche ragione. eppure la sezione del tempo-spazio, gli anelli concentrici del tronco della mia vita, se letti a posteriori in un improbabile salto cronologico sono impietosi. mi ricordano che ciò che ho vissuto ha raggiunto profondità abissali. o forse no. in fin dei conti è come voler guardare un solido da tutti i lati contemporaneamente, come voler ruotare la testa a destra e a sinistra allo stesso tempo. non si può. ottieni solo vertigine non euclidea. 

dall'altro lato preferisco tenere chiusi alcuni segreti nella piccola scatola del mio cuore, al sicuro, chiusa con un piccola chiave intangibile, finemente ornata. ci sono cose che dico a me stesso e sulle quali rifletto, storie di addii, di perdite, di abbandoni, di ritrovamenti, di arrivederci, di incontri vecchi e nuovi, pianti e risa. ma sono cose che riservo in modo esclusivo ad una comunicazione orale. oppure no? forse non tutto, forse un poco alla volta. dopotutto sto parlando ad un macchina, ad un diario di proporzioni cosmiche che scandaglia le superficiali profondità dei miei testi per propinarmele sottoforma di pubblicità targettizzata. e il dolore e la gioia non possono che essergli indifferenti. le potrà anche fagocitare e metabolizzare ma il risultato che poi mi proporrà sarà goffo, grottesco. in sintesi, anche se scrivessi le oscure avventure del dott. morte e dei suoi amici-pazienti (io) il sg. google non saprebbe che farsene. ma in una sorta di infantile pensiero magico, evocare nomi e aneddoti equivarrebbe per me a tradire quelle persone e quelle esperienze, persone ed esperienze che nemmeno ci sono più. non potrò mai fare una cosa del genere. 

quello che invece posso fare con relativa sicurezza è concentrarmi sul secondo punto (di due). mi trovo spesso, come già detto, a rileggere i miei vecchi post. ci sono delle notevoli chicche come la recensione dei Si Non Sedes Is (ahaha) o del live degli Zu (ahahah). ma oltre a questo c'è un filo conduttore che si snoda e si annoda nel corso degli anni. al traccia del divenire-scrittura, la modifica del mio approccio alla narrazione (perché di questa parliamo), nel corso degli anni (perché di questo parliamo). 
le recensioni iniziali mi evocano nostalgia e affetto più che curiosità. mi ricordano l'entusiasmo del racconto (ancora) e la velleità di essere letto o ascoltato. è pure successo a volte a giudicare dalle puntuali statistiche di blogspot. 
poi da lì c'è un'involuzione prima estetica poi contenutistica. le recensioni fanno spazio alle riflessioni. entra prepotente il tema dell'improvvisazione (come è giusto che sia), fanno un passo indietro gli ascolti. linguaggio, tematiche di genere, attivismo, politica, sono imbarcazioni cariche di possibili relazioni e dialoghi che vedo scorrere sulla linea dell'orizzonte. alcune spariscono o si inabissano, altre invece mettono l'ancora, costruiscono passerelle e piattaforme (anche) estrattive. 
c'è un blocco cronologico, le cui tracce si possono reperire sul blog con relativa facilità, in cui dominano i temi filosofici contemporanei delle mie letture di allora. quanto fascino Negarastani o lo Xenofemminismo. tutti concetti che mi porto ancora dentro, che mi rendono la persona che sono. sono contento di poter in qualche modo riscoprire il processo rivivendo un po' le tappe. 
emerge l'annosa domanda senza risposta: ma ho scritto io quelle cose? saprei riscriverle? e come prima la risposta non c'è, come guardare a destra e sinistra contemporaneamente. di sicuro non puoi farlo ma forse puoi leggerne il risultato immaginario, provare ad immedesimarti nella persona o cosa o entità che, per strani poteri cosmici, è in grado di farlo. vivere, crescere, modificarsi, forse è proprio questo. 

sono la somma di tutto questo, non c'è dubbio. anzi sono olistico, maggiore della somma delle parti. i fenomeni di apprendimento, contenuti, morale, etica, spiritualità ecc... non seguono delle regole algebriche. 

possiamo partire da qui forse

possiamo forse anche ri-partire, un po' come è avvenuto in molti post in cui millantavo un ritorno alla progettazione o un radicale cambio di rotta; cose che non sono mai avvenute. 
non parlo di ri-partire in questo blog, parlo di ri-partire in ciò che blog non è (tutto il resto) e magari esportarlo qui dentro o almeno raccontarne il processo. 

spesso parlo da solo, soprattutto in macchina ma anche a casa. non la vedo tanto (per ora) come un sinonimo di una psicopatologia, quanto un modo per mettere i pensieri in fila. credo ancora all'immenso potere taumaturgico e creativo della verbalizzazione. parlare a voce alta rende i miei pensieri concreti, attraverso la parola riesco a dare forma a ciò che penso e a ciò in cui credo, oltre che ad essere un ottimo esercizio retorico, una simulazione di scenari in cui potrei venirmi a trovare.  
uno degli recentissimi argomenti che ho discusso con me stesso è molto inerente all'argomento di oggi. è proprio l'involuzione estetica che ho vissuto nel corso degli anni. uso di proposito il termine involuzione giusto per non usare il termine evoluzione che mi sembra davvero pretenzioso, in generale, non solo quando lo uso io. oltre al semplice fatto che se osservo il mio percorso artistico da quando ho cominciato a suonare la chitarra classica non ci vedo nulla di evolutivo. ma soprattutto perché (e lo scopro nel mentre)

involuzione è: 

l’atto dell’involgersi, dell’avvolgersi cioè su sé stesso, del ripiegarsi e avvolgersi verso l’interno, e la condizione che ne è il risultato

mi pare più che appropriato. 
la condizione che ne è il risultato. di sicuro mi sono involto, avvolto su me stesso, ripiegato verso l'interno, sia letteralmente che metaforicamente. ho preferito la riflessione alla manifestazione, interrogandomi sul suono più che emetterlo. il valore del silenzio, le letture, la soundart, i concetti, l'improvvisazione, il dialogo sopra tutti questi temi. e ne è valsa la pena perché ho trovato una trasversalità anche negli altri ambiti della mia vita, partendo in particolare dalle pratiche improvvisative da un lato e il trans-femminismo dall'altro. da quel nucleo centrale di concetti di fatto teorici mi sono pian piano accorto che le modalità di approccio proprie di questi temi erano applicabili anche, per esempio, anche ad altri ambiti politici o all'ascolto o al modo con cui vediamo ed utilizziamo la tecnologia. o anche nell'ambito professionale, nel rapporto comunicativo ed emotivo con le persone. 
ma involuzione non è de-evoluzione, rimane progressione, avanzamento anche se in modo frattale e non lineare. rivoltarsi come un guanto. far sì che ciò che è dentro venga fuori e ciò che prima era fuori tappezzi il dentro. molto appropriato. come un sogno che ho fatto, in cui per uno strano patto con un famoso criminale mi trovavo ad essere letteralmente convoluto in uno strano cubo di carne e viscere composto da vari tasselli rotanti incastrati finemente fra loro, il cui movimento poteva essere azionato da meccanismi di budella e leve intrecciate. era il prezzo da pagare per? forse la vita di un'ignara persona da me amata? non ricordo. 
anche quello dei sogni è un tema ricorrente: il desiderio, mai del tutto appagato, di trascrivermi i sogni significativi, al risveglio. avevo cominciato a farlo utilizzando il tablet ma poi, come spesso mi accade, mi sono un po' perso. una pratica molto involuta, convoluta, di vero ripiegamento verso l'interno. 

ma eravamo partiti dall'involuzione estetica e artistica. recentemente ho messo le mani su un'amplificatore. una oggetto che non possedevo da anni. da quando suonavo in gruppi musicali. un oggetto che pensavo quasi di essermi lasciato alle spalle. ora invece troneggia in camera, con tanto di cassa. un Davoli maestoso da una potenza di fuoco devastante, con le sue bellissime valvole incandescenti. un oggetto magico. e approcciandosi con rispetto alla dinamica azione-reazione fra chitarra e ampli ho vissuto un'altra epifania dell'involuzione, il perdersi nel dettaglio armonico delle corde che vibrano, pure, senza necessità di distorcerle o deformarle. puramente analogico e immediato, gioco di volumi e feedback e oggetti incastrati fra le corde e mollette appese e cacciaviti. un mondo sonoro che si dischiude senza fatica e senza orpelli, diretto, non-mediato. è involuzione? cronologicamente potremmo anche dire di sì perché comunque stiamo parlando di un passo "tecnologicamente" indietro più che avanti. è involuzione anche dal punto di vista biografico perché rappresenta il "mio" personale passato. ma è soprattutto involuzione nel senso vero del termine: è un ripiegamento estetico su sé stesse, un guardarsi dentro riflessivo attraverso quasi la staticità degli armonici, la lentezza della riflessione, la concentrazione del momento. e anche, e forse in particolare, la scelta, l'agency, il ruolo riscoperto, e l'epifania nell'incontro con lo strumento che questo comporta. inginocchiarsi, con la chitarra orizzontale, le mollette appese sulle corde, il cacciavite infilato come una spada nella carne, e pizzicare debolmente, poi con più intensità, poi di nuovo debolmente, sprigionando quei battimenti che solo un amplificatore a un metro da te riesce ad esprimere e saturare così.
ritorno su queste righe a distanza di (non troppo) tempo. l'amplificatore è scomparso dalla camera, troppo potente, troppo poco spazio. quello che invece è rimasto nella camera delle meraviglie è il ripiegamento estetico di cui l'amplificatore ha rappresentato un po' l'incarnazione, per quanto temporanea. involuzione come processo di auto-riflessione. adesso che mi fermo e guardo indietro alle ultime settimane-mesi è talmente lampante e palese che mi lascia un leggero senso di vertigine. le cose stanno andando bene sotto molteplici punti vista, sia artisticamente che non. e ho come la sensazione che dipenda anche da questo fenomeno involutivo. l'involuzione crea compattezza e quest'ultima crea stabilità, quadra il cerchio. chiaro, il lato negativo è un po' un distanziamento dall'esterno ma penso che per ora possa anche andare bene così. 
tornando però all'estetica, l'amplificatore e la sua dinamica non-mediata ha tracciato con più dettaglio i confini di ciò che voglio venga contenuto nella mia personale idea di performance. rileggendo il blog ho trovato altri riferimenti a questo tema (come se fossero stati scritti da un'altra persona, e un po' è anche vero come abbiamo detto). il contenuto deve essere corporeo, materico, fisico, non-mediato. deve essere avvolto su sé stesso, ripiegato, folded, invaginato, in una sorta di auto-erotismo performativo. e una testata cassa, con il suo maestoso aspetto fallico, non può che sottolineare questo. 
la mia performance ideale è anche quanto più possibile non idiomatica e per idiomatico intendo "collegato ad un linguaggio codificato, un idioma, una struttura culturale". ma anche e forse soprattutto 

"In musica, stile i., concezione della scrittura musicale, divenuta comune dalla seconda metà del sec. 18°, in cui l’autore non scrive più, come in precedenza, un brano senza fissare una strumentazione vincolante e definitiva, ma tiene conto, nel comporre, delle specifiche caratteristiche timbriche, espressive e tecniche degli strumenti a cui il brano è destinato".

 anche l'improvvisazione radicale è legata ad un linguaggio codificato ma ontologicamente tende a discostarsene, o almeno dovrebbe. non è quindi il prodotto ma il processo. il prodotto è il processo. 
e poi dovrebbe essere il più possibile meta. dovrebbe quindi riguardare concetti ed oggetti che si riferisce alla musica dall'esterno. non dovrebbe limitarsi alla struttura come melodia o ritmo o armonia ma rimandare a concetti altri, meta-musicali. facile a dirsi ma impossibile da farsi. o meglio, estetica in quanto meta. come un'arte concettuale ma senza bisogno di una concettualizzazione a priori. che frase convoluta. 
proviamo a partire da qui. domenica p.v. quindi 6.4.25 suono. suono in solo, una cosa che contemporaneamente mi intriga e mi spaventa. l'intrigo è dovuto in parte all'indipendenza della perfomance e in parte alla necessità di cesellare finemente un'estetica propria, non mediata dal dialogo con l'altra. 
la paura è data dagli stessi elementi ma in negativo. l'assenza di mediazione è una responsabilità oltre che un dono, espone all'errore non mediato. ma è anche vero che errore è possibilità, è apertura e accoglimento. 
ad ogni modo per questa occasione di performance ho decido che il mio strumento sarà il no-input mixer "aumentato" da qualche scorciatoia informatica. nel processo mi sono accorto che le scorciatoie sono ridotte veramente all'osso e non così determinante nell'economia della performance. d'altra parte posso dare un livello estetico leggermente diverso, oltre a garantirmi la possibilità di registrare il tutto. ad oggi 1.4.25 sono globalmente soddisfatto dei risultati, ottenuti con una costante, anche se non impegnativa, pratica quotidiana. la parola che più mi viene in mente quando penso a quello che sta emergendo è 

controllo 3. fig. In sociologia, c. sociale, complesso apparato di norme, generalmente codificate (e più o meno interiorizzate da parte dei singoli), e di strumenti coercitivi, presente in ogni società (anche se diverso per ciascuna), finalizzato a identificare, prevenire, scoraggiare e punire quei comportamenti che sono considerati devianti rispetto ai valori della comunità, e quindi a permettere la riproduzione della società sulla base dei rapporti consolidati. 

riproduzione del comportamento. discostarsi dalla norma. cos'è la norma per un no-input mixer? l'idea che ne ha la comunità elettroacustica mondiale? e come viene rappresentata questa comunità? attraverso l'esteso corpus di materiale audio-video reperibile su youtube? e se questa norma non mi rappresenta? ma se non mi rappresenta, dove ho costruito il mio immaginario di cosa sia o non sia la norma per un no-input mixer? ho le mie fonti certo, ma con che criteri stabilisco che un preciso contorno estetico è il confine di ciò che reputo bello o brutto? solite domande senza risposta. forse questo processo è un meccanismo tettonico geologico, fenomeno che si sviluppa in anni, durante il corso della mia vita, e che si è sviluppato per secoli e millenni e si svilupperà per secoli e millenni prima e dopo di me. io ne sono rappresentate nel qui ed ora, ho raccolto il testimone, passerò il testimone. secondo questa visione l'estetica sarebbe un lascito, un processo ereditario culturale. quando mi imbatto in questi concetti mi viene sempre un po' di vertigine. 
a prescindere dal lascito però, io sono qui ed ora qui ed ora, quindi la mia competenza, volendo proprio soffermarsi su qualcosa, è circoscritta. poi chiaro, le azioni del presente determinano il futuro che retroagisce sul passato in convoluti modi che sappiamo. 

visto che oggi è il 07.04.25 e ieri sera ho suonato in solo con un no-input mixer adeguatamente preparato, in una performance semi-strutturata in un ambiente molto accogliente e famigliare, mi piacerebbe condividere alcune riflessioni sui temi del post.
- ieri in particolare, ma in questo periodo in generale direi, ho sentito la necessità di una struttura. una cornice di contenimento, di controllo, che mi imponga dei percorsi. dico questo perché la fretta tende a modificare performances pensate per essere lineari e quasi sequenziali, con le loro pause e i loro momenti, in qualcosa di molto più elastico e caotico. se in gruppo questa cosa è mitigata dalla relazione, in solo può essere impietoso. 
- l'imprevisto. legato al punto precedente, può sovvertire completamente una performance. ieri l'imprevisto si è verificato (una delle parti che avevo pensato in maniera semi-strutturata non è stata possibile per un mio errore tecnico di preparazione) e ho deviato il corso di come mi immaginavo tutto.
- in generale è stato un banco di prova comunque interessante, il punto di arrivo di alcune riflessioni estetiche che sono racchiuse anche in questo post. punto di arrivo ma anche tappa di un percorso. grazie a questo stimolo ho comunque approfondito e raggiunto livelli di controllo tecnico sullo strumento che, pensandoci, mi affascinano molto e sono parecchio avanzati rispetto al mio approccio precedente.

la carne al fuoco come sempre è tantissima. penso che il modo migliore per concludere sia tediarvi con due link che ben sintetizzano gli elementi estetici che ho portato ieri sera e che hanno caratterizzato queste ultime settimane di rapporto con il mio strumento






direi che ci vedremo nel
futuro





domenica 22 ottobre 2023

ancora


ancora ricollocamento funzionale. questo sarà un post estremamente critico e risentito. partiamo da una traccia per arrivare ad una serie di concetti. 

in questa traccia c'è un'esteso uso del riverbero, o meglio, del gated reverbero, un effetto che viene attivato da un segnale ad una certa intensità, superando quindi il "cancello" del nome. non è il gated riverbero di peter gabriel di cui behringer parla nel manuale del "virtualizer pro" (unità rack dalla quale questo riverbero proviene) ma è un riverbero ibrido, situato e de-situato nel confine fra sua natura ed "altro". il perché di questo situarsi e de-situarsi è facilmente intuibile ai lettori di questo ormai vecchio blog: l'effetto non è usato in modo ortodosso ma viene ricollocato, sradicato dalla sua posizione economico-musicale e reimpiantato in un terreno nuovo, in particolare in una fitta ecologia di feedback. 

la mia pratica artistica è sempre stata un saliscendi di quesiti sull'uso o meno di determinate tecnologie musicali. recentemente mi sono trovato a dovermi confrontare con effetti "storici" nella musica elettronica, anche di ricerca e anche più periferica, come il delay e il riverbero eeeeeeeee.. stop..

e ripresa. ok tutto vero. mi sono confrontato con diverse tipologie di effetti, sia storici che meno storici. delay, riverberi, tremoli, auto-pan, filtri ecc... ma nel contempo mi sono anche domandando che cosa rende una cosa, per me, estetica. per trovare una risposta meno scontata di "perché di sì" ho provato in vari modi:
- sicuramente NON leggendo della theory e forse questo è stato un errore; 
- chiedendo ai miei pari affini; 
- chiedendo ai miei pari non affini; 
questo operazione ha prodotto moltissimi risultati diversi fra loro. 
Ciascuna intende la propria estetica artistica in maniera molto diversa. E questo intendere può condurre a risultati veramente distanti fra loro. C'è che affida tutto a una non ben specificata "esperienza" intendendo che la sua estetica presente sia il risultato degli ascolti e riferimenti collezionati nel corso di una vita (forse presupponendo che solo dopo una vita intera di collezione si comincia a capire qualcosa? ma rigetto con forza questa idea ovviamente). 
altre si concentrano sull'intermedialità: "la mia estetica deriva da ascolti, letture, visioni, non necessariamente musicali che poi convergono all'interno di un quadro estetico più complesso". OK chiaro però rimane il problema di con che criteri scegli gli altri riferimenti intermediali. non mi soddisfa sapere che per fare un brano pensi a un quadro o viceversa, io voglio sapere perché scegli quel quadro, o perché quando componi pensi ai buchi neri o al porco dio. 
tutto questo per dire che la risposta ancora non è arrivata.
anche leggendo della parziale e breve theory le domande rimangono abbastanza invariate. l'estetica viene (ovviamente) intesa come qualcosa di formale e quindi si analizza, per esempio, l'improvvisazione, usando dei criteri filosofici quasi metodici, focalizzandosi su, da un lato, la contrapposizione alla forma delle composizione tradizione non improvvisata, da un altro i ben noti concetti di composizione istantanea, azione-reazione, imprevedibilità ecc... rileggendoli sotto una luce formale e, appunto, estetica. 
senza contare il fatto che si parla prevalentemente di improvvisazione jaaaaz e non di improvvisazione radicale di altra natura. 
c'è il tema dell'errore e dell'apertura umile all'imprevedibilità, entrambi concetti riletti in chiave estetica. tutte cose fondamentali ma non nucleiche. il problema però è che giriamo sempre attorno a qualcosa senza riuscire ad arrivarci completamente. o ci appelliamo ad un estetica divina o immutabilmente kantiana, oppure cerchiamo risposte in qualche stronzata psicoacustica o psicologica. ma piuttosto che dare credito alla psicologia sperimentale preferisco dare credito ai grandi antichi. il fatto che una melodia stimoli in me ricordi o sensazioni e che queste sensazioni e ricordi derivino da una particolare attivazione cerebrale a me, che cazzo me ne frega. cioè sinceramente, che cazzo me ne frega. cosa mi aggiunge, cosa mi dovrebbe far dedurre, in che modo dovrebbe arricchirmi se non scartavetrandomi i testicoli con cagate meccaniciste. ok uao incredibile è solo un insieme di neuroni che si scambiano dei simpatici messaggi elettrici incredibile such cool such uao. ma non hai comunque risposto alla domanda, hai solo trovato un sofisticato meccanismo (che nemmeno capisci fino in fondo). hai trovato una funzione, hai scoperto come accadono le cose materialmente ma non riesci nemmeno a dare una forma all'oggetto, alla cosa metafisica che stai osservando. è solo un insieme di lucine che si accendo e spengono ma non sai nemmeno come chiamare quello che osservi. capiamoci, e capiamoci molto bene: questa roba non è una scienza, non è misurabile, non è quantitativa. toglietevi dalla testa di poter studiare con un metodo "scientifico" questi fenomeni. già sento qualche mentecatto psicologo dire "eh ma il cervello si accende una frazione di secondo prima che tu riesca a verbalizzare l'azione che fai quindi in realtà non c'è libero arbitrio", dio cane ste robe mi fanno strippare. grazie dio della psicologia moderna per avermi concesso questo frammento della tua immensa conoscenza chissà come avrei fatto senza, una vita senza significato sicuramente, grazie a questa preziosissima informazione potremo finalmente costruire una nuova società più libera e uguale, privata dall'arbitrio e quindi dal male. ma guarda un po', cosa vedo, dell'arbitrio NONOSTANTE la preziosa informazione che ci hai donato, chissà come mai. ma vabbè lasciamo perdere la società e il mondo reale, soffermiamoci sulla performance e improvvisazione. appena sento uno di questi sedicenti premi nobel affermare che l'epifania del frammento presente è illusoria perché tanto è tutto privo di arbitrio mi faccio esplodere. e la chiudiamo qui. l'ontologia e la percezione sensoriale sono cose sfuggenti e, personalmente, la pretesa di poterli spiegare semplicemente sezionando metaforicamente le funzioni del cervello mi sembra proprio:
- una stronzata
- una pomposa supponenza umana
- un modo per riempire il vertiginoso vuoto di senso che si percepisce oltre i frastagliati margini della realtà, un vuoto abitato da creature non euclidee vermiformi fatte di assenza. perché ricordatevelo bene, ogni epistemologia è valida esattamente come le altre, soprattutto quando si cerca di costruire un'ontologia dell'improvvisazione.

c'è però un'evoluzione di questo discorso, diciamo una doppia evoluzione, un doppio svolgimento. la prima parte riguarda il fatto che, recentemente, ho assistito ad una perfomance. una perfomance che non mi è piaciuta e nella quale ho ben identificato gli elementi estetici che non vorrei abitassero ciò che faccio artisticamente. oltre ad identificarli, questo ragionamento per difetto ha poi automaticamente permesso di delineare i contorni degli elementi che invece sì, mi interessano. invece di tracciare una linea anneriamo lo spazio vuoto attorno. è anche questa un'ontologia come sappiamo. 
l'altro binario riguarda una conversazione interessante con un persona che stimo artisticamente e che mi ha permesso di riflettere su alcune dinamiche estetiche-contenutistiche che avevo intravisto solo in un ambito molto diverso. 

la perfomance di cui parlo si è svolta in un contesto informale molto bello e molto carico di potenzialità. purtroppo per tutta una serie di motivi, che potremmo anche analizzare in un post successivo o accennare in questo, questo genere di situazioni vengono come parassitate da comportamenti stereotipati che molto hanno a che vedere con la gerarchia dell'età (in un caso) e dell'esperienza (nell'altro). queste due mura impediscono la trasparenza dell'atto artistico spontaneo che, manca questa premessa in effetti, si ha la pretesa di voler proporre. in sintesi: sulla carta una performance per strumenti acustici ed elettronica, destrutturata e ampiamente basata sull'improvvisazione, preceduta da una sontuosa e autoreferenziale spiegazione di come le musiciste siano arrivate all'illuminazione di questo e di quello. già questa sontuosa e autoreferenziale premessa produce in me dei sentimenti molto discordanti, fra il voler andarsene il desiderio di assistere ad ogni modo. la comunicazione è un contenuto (possibile) dell'atto artistico. non è necessario spiegare qualcosa a parole a meno che io non te lo chieda direttamente. su questo punto entreremo più nel dettaglio in seguito ma per adesso è sufficiente sapere che, ovviamente stiamo sempre parlando della mia sensibilità personale, atti artistici come questi non necessitano di una spiegazione a priori perché contengono già in sé tutti gli elementi per il proprio stesso svolgimento e per una, volendo ascoltare, attenta autoesplicazione. forzare a parole un qualcosa che parole non richiede significa aggiungere un livello semantico non richiesto, significa incasinare tutto. e si incasina tutto proprio perché l'eventuale spiegazione deve essere atto condiviso fra tu che suoni ed io che ascolto, la responsabilità dello svolgimento di qualcosa di aperto (opera aperta si intende) è condivisa e avviene da un lato durante lo svolgimento stesso, da un lato dopo la performance ma sicuramente non prima. spiegarmi qualcosa prima che sia successo è come minino interpretabile come spocchia. ed è proprio spocchia la parola che mi viene in mente quando penso a quanto ho assistito. 

se qualcosa non vi è chiaro fate domande, non fate discorsi. lo dicevano gli uochi toki un miliardo di mila anni fa. 
quindi gli elementi estetici che per "difetto" sono emersi e verso i quali propendo, sono contenuti nel dominio del movimento più che del suono. sono elementi estetici gestuali. sono "agire" sullo strumento, collegare l'azione al suono. viceversa la pura stasi dell'ecosistema, la passiva percezione dell'evoluzione di un qualcosa oltre il nostro controllo, non la reputo più valida come la reputavo alcuni anni fa. mi piace l'incarnarsi del momento all'interno del corpo, la materializzazione dell'atto-movimento-suono. l'urgenza espressiva che spesso sfocia nell'estensione dello strumento oltre i propri limiti, la resignificazione, il ricollocamento funzionale appaiono qui come necessità ontologiche, necessità vitali per l'atto artistico: se il momento presente mi spinge oltre i limiti di quello che sto facendo significa che è lì che devo andare; negare questa necessità significa negare l'esistenza stessa dell'urgenza e quindi del momento artistico, del contenuto di ciò che sto facendo. torno al discorso precedente: non può essere comunicazione in questo, non puoi spiegarmelo con parole umane comprensibili e sicuramente non puoi farlo a priori. se spieghi questo a priori significa che ti stai costruendo i limiti insuperabili del sistema di riferimento, stai truccando la partita, stai limitando le mosse. 

ma in realtà è ancora più affascinante considerare il punto di vista esterno, un'estetica al di fuori che possa osservare e raccogliere suggestioni da poi condividere. la distanza che mi separa dalla "stasi passiva dell'ecosistema" per qualcuno potrebbe invece essere facilmente colmata anzi, potrebbe per me rappresentare un certo valore estetico. quindi dove sta la ragione? dove sta la verità? probabilmente da nessuna parte. 
lo stesso vale per la mia ritrosia nel considerare la melodia, il riverbero, i bordoni e tutte gli altri orpelli che classicamente attribuisco a un contesto "jam session". recentemente questa mia consapevolezza è stata messa in crisi e, con estrema difficoltà, è nato piuttosto un desiderio di analogia più che di conflitto. il conflitto può scaturire nell'urgenza e nella dinamica espressiva ma spesso l'unica cosa che determina è una serie infinita di soliloqui e incomunicabilità. certamente per qualcuna, la capacità di sapersi reinventare e adattare al contesto è una caratteristica inalienabili e sostanziale di qualunque contesto free impro. ma se fosse il contrario? se fosse in realtà un lavoro personale di adattamento e malleabilità nei confronti di estetiche e praxis lontane da noi, lontane dalla nostra sensibilità? anche qui la verità forse non sta da nessuna parte. però è interessante approcciare il conflitto da questo lato. dal lato dell'accettazione piuttosto che dell'antagonismo a tutti i costi. forse lassismo? dopo l'accettazione può venire la modifica, può succedere lo sviluppo. e soprattutto è anche una questione di aspettative e frustrazione delle stesse, di asticelle e di canoni. ciò che per me è imprescindibile per un'altra può essere irrilevante e viceversa. il terreno di gioco serve proprio a questo, a delimitare degli spazi, a intersecare aree comuni e, allo stesso tempo, a rompere quegli stessi spazi, tracciare nuove linee di gioco e superarle ancora. non è detto però che tutte giochino con le stesse regole. serve forse una traduzione, o una mediazione? il processo estetico sarà quindi quello e non il raggiungimento di un ideale precedente e magari anche un po' stereotipato. e non parlo di gerarchia, condividere una mediazione magari rinunciando a qualcosa di nostro non significa cedere e costruire qualcosa di minore qualità. anzi, forse significa acquistare un nuovo grado di consapevolezza di "stare assieme". 
e il saliscendi di opinioni su questo tema mi fa forse sembrare un po' un rimasto ma al momento la sensibilità che mi caratterizza si spinge più verso la mediazione che verso il contrasto. magari domani sarà diverso, magari fra un anno sarà tutto annullato e tutto nuovo.